mercoledì 11 dicembre 2019

...e a Casteltermini Ferragosto?




Casteltermini, 14 08 2014
I giovani Castelterminesi, e non solo, tutti quelli della "montagna" si preparano per l’esodo di Ferragosto… Da qualche anno a questa parte è più "figo" passare la notte di Ferragosto in spiaggia. Così la “montagna” si sposta al mare, tutta la montagna e tutti al mare! Purtroppo è sempre più difficile trovare posto, allora ci si sposta un giorno prima, si va ad occupare una piazzola: si vedono ragazzi che, armati di filo spinato, paletti, fari e allarmi, difendono il territorio conquistato, altri che immancabilmente mettono le angurie in acqua, che poi immancabilmente si perdono… Dovete immaginare che se ne perdono così tante, che dall’altro lato del mediterraneo, in Nord d’Africa, domani, 15 agosto, si festeggia il giorno dei cocomeri in acqua, con grandi scorpacciate delle angurie venute dal mare!

I lidi preparano le amplificazioni per far ballare tutta questa bella gioventù, quelli che hanno fatto la guardia alla piazzola la notte prima dormono con le teste appoggiate ai tavoli, quelli che non ci sono stati la notte prima si chiedono: Chi vinnimu a fari cca’? Il ballo, si sa, agita i corpi, ritempra lo spirito e fa sudare come fontane, il sudore si attacca ai vestiti, arrivati ad un certo punto tutti puzzano come caproni…
Intanto quelli più intellettuali o romantici, o semplicemente quelli che hanno rimorchiato un lui o una lei, sono rimasti accanto al fuoco e cantano Ligabue, all’inizio… nella seconda parte Pupo… nella terza parte rimane solo il cantante con la chitarra, tutti si sono allontanati , canta Pausini: La Solitudine… e si chiede: Chi vinni a fari cca’? Tutti quelli che sono stati accanto al fuoco puzzano come inceneritori…

Alla fine della serata tutti, in special modo quelli che hanno rimorchiato, convergono dentro strettissime tende da campeggio, alitosi alcolica, scorreggiosi mistica, sudorazione che sa di cipollata, puzzo di crastu arrustutu, dopo una serata passata a ballare con le scarpe da ginnastica in mezzo alla sabbia le togli è chiaro… il fondersi degli odori crea un gas anestetizzante. Tutti dormono, dalla tenda si alza un sottile filo di fumo viola, un uccello che ha attraversato il sottile filo viola  è morto intossicato all’istante
Il sole rianima i nostri eroi, la prima frase è questa: grapi, graaapiii!
Tutti si precipitano fuori, una nuvola di odore di umanità si spande nel cielo… diecimila caffè e via di ritorno! Arrivati a casa la mamma:

Cosa hai mangiato?
Uuuuhhh!
Ti sei divertito?
Uuuuhhh!
Chi c’era?
Uuuuhhh!
Hai dormito?
Uuuuhhh!
Va bene… vai a letto.
Uuuuhhh!
Ma tuo fratello dov'è?
Uuuuhhh?
Tuo fratello dov'è?
Oddio! nnu scurdammu  a mari cu tutta a chitarra!

Sicilia depotenziata: i ponti si piegano, le strade franano, l'asfalto si spacca…


I ponti si piegano, le strade franano, l'asfalto si spacca… sembrerebbe una maledizione biblica e invece è solo la realtà delle strade siciliane…

La situazione della viabilità in Sicilia è davvero ai limiti del collasso, niente è normale: le strade si spaccano, ponti si inchinano, il cemento è depotenziato. Ai Governi del Nord di Berlusconi e Monti, sono seguiti i Governi del Nord di Letta e di Renzi. Per noi nulla è cambiato, anzi… ai proclami di Renzi, amplificati in pompa magna dai media, seguono sempre azioni silenziose e subdole. “Il sud non è spacciato” diceva Renzi nei giorni scorsi (parole); “L’Eni è pronta a lasciare la Sicilia, dismettendo gli stabilimenti nelle aree industriali di Gela e Priolo” (fatti). Per non parlare di quello che questo Governo sta facendo alla scuola, lasciamo perdere.
Che fare? Come prima cosa la Sicilia, scoperta della acqua calda, ha bisogno di infrastrutture e, ahimè, di un controllo serio e serrato su quelle esistenti. Le nostre infrastrutture sono inadeguate e costituiscono pericolo costante per la vita delle persone, è emblematico il fatto che i ponti cedono improvvisamente e che noi assistiamo impotenti, anzi depotenziati, a tutto questo.  Quello accaduto del Viadotto Petrulla è l’ultimo di una lunga serie: già nel 2009 un viadotto nei pressi di Butera, sempre lungo la statale 626 era crollato, così come il 2 Febbraio 2013 a cedere era stato un tratto di manto stradale del Viadotto Verdura sulla Strada Statale 115.
Il rilancio della Sicilia deve partire dalle infrastrutture, il  gap siciliano nei confronti dell’Italia è grave e ogni anno aumenta sempre di più. Dobbiamo obbligare i Governi ad ascoltarci e a intervenire investendo per colmare le differenze. Gli investimenti porterebbero inoltre lavoro e dignità alla nostra terra. Magari evitando di affidare la loro costruzione agli stessi che hanno realizzato i ponti di chewing gum, troviamo una formula che al posto del cemento depotenzi gli imbroglioni. La Sicilia, se deve ripartire, la devono fare ripartire i Siciliani.
Quella Siciliana sembra una comunità che aspetta giorni migliori, stiamo consumando le nostre vite attendendo giorni migliori, senza agire è chiaro, ci godiamo il tepore della nostra terra, è meglio non avere desideri, è meglio non tentare di migliorare e se peggioriamo non è colpa nostra, se a poco a poco ci ritroviamo senza ponti, senza treni, senza strade degne di questo nome non è colpa nostra, noi non abbiamo fatto niente! Da buoni Siciliani non vediamo niente, non vediamo il pericolo che corriamo ogni volta che ci mettiamo in strada, non vediamo le vie dei nostri paesini sempre più vuote.
Ogni volta che sento notizie come quelle di Licata non posso non pensare agli ignavi, a quelle anime descritte da Dante nel terzo Canto dell’Inferno, a coloro cioè che durante la loro vita non agirono mai né nel bene né nel male, senza mai osare avere una idea propria, ma limitandosi ad adeguarsi sempre a quella del più forte. Sono costretti a girare nudi per l'eternità inseguendo una insegna, punti e feriti da vespe e mosconi. Il loro sangue, mescolato alle loro lacrime, viene succhiato da fastidiosi vermi. Mentre guardavo le immagini Viadotto Petrulla mi è sorta questa amara riflessione: il nostro inferno è già iniziato, siamo stati condannati a vivere in un deserto. Le nostre strade portano più ad un destino che a una destinazione. Se in un tempo ragionevole non si riesce portare l’attenzione del Governo Nazionale sulla condizione delle nostre strade… allora è meglio che le nostre strade si dividano!

Casteltermini? Troppa Grazia…


Io amo il mio paese perché è poliedrico, gli Italiani sono un popolo di “santi poeti e navigatori”. I Castelterminesi dipende… se siamo a S. Croce siamo tutti “cavaddara” o quantomeno esperti di cavalli. Se c’è un rally siamo tutti piloti o navigatori, o almeno esperti di rally. Se c’è il torneo di calcetto siamo tutti calciatori, figuriamoci se ce ne sono due! Tutti Maradona diventiamo! Scherzi a parte, siamo anche un popolo di “duplicatori”, non ci bastava un torneo di Calcetto? Ora ne abbiamo due! Ma a giocare saranno sempre gli stessi? I tornei saranno in contemporanea? Sikelianews aveva intenzioni di seguire tutte le partite e di proporre la diretta streaming di quelle più importanti… ma stando così le cose è molto difficile riuscire nell’impresa di seguire due tornei, ci proveremo.



Allora riassumendo, gli Italiani sono un popolo di santi poeti e navigatori, noi Castelterminesi siamo santi poeti e navigatori (di rally però), cavaddara, calciatori e, nel periodo della caccia siamo anche cacciatori. Per S. Croce quelli che non sono “cavaddara” si trasformano in fotografi e, pur non avendo nessuno attestato professionale, pretendono, non tutti ovviamente ma molti, il permesso per andare al di là delle transenne, così da potere fare i primi piani di tutti i frisoni! Un mio amico (CP) ha dimostrato che anche da dietro le transenne si possono fare foto bellissime, basta saperle fare! Su Facebook siamo anche poeti, e siamo tutti colti: citiamo autori stranieri come fossero nostri cugini, scriviamo pensieri di una tale profondità che la nostra pagine sembra la “Fossa delle Marianne”. Siamo dunque tutti scrittori.
Siamo anche tutti attori, non in senso pirandelliano “tutti siamo costretti ad interpretare una parte ogni santo giorno…”, no, siamo tutti dei mattatori del palcoscenico e siamo anche cantanti e registi… e siamo ricchi, perdonatemi… ma dove prendiamo i soldi per fare tutte queste cose?
E allora siamo santi poeti (su FB) navigatori (di rally e non) cavaddara piloti calciatori Maradona duplicatori cacciatori fotografi attori scrittori mattatori colti cantanti registi ricchi.
Dimenticavo, l’anno prossimo a Casteltermini organizzano il Gay Pride…
Pepè pe pe pepe, pepè pe pe pepe pe peeeee! Pepè pe pe pepe, pepè pe pe pepe pe peeeee!

De Cosmi il primo illuminista siciliano


Giovanni Agostino De Cosmi fu un siciliano anomalo, un sincretista mite con la vocazione dell' educatore. Visse in anni che sembrano molto lontani ma dove ritroviamo le radici del nostro contraddittorio presente, con i problemi allora non risolti che continuano a pesare sulla storia di oggi. Considerata l’epoca De Cosmi ebbe vita lunghissima: infatti morì nel 1810, vecchio di 84 anni. Come dire che attraversò almeno tre mondi diversi. Conobbe il conformismo pauroso d' ogni novità che in pieno Settecento vigeva in Sicilia, fu tra i protagonisti della breve ma intensa stagione illuminista, infine visse il riflusso e fu lambito dal sospetto quando, qualche anno dopo la rivoluzione francese, la parentesi riformista ebbe tragicamente fine. Dimostrò sempre d'essere uno spirito libero, sostenuto da una fiducia nell'umanità che è tipica del più genuino illuminismo.

Nacque a Casteltermini, il padre era un genovese mercante di tessuti che senza dubbio gli trasmise una curiosità per niente ortodossa. Quando restò orfano era appena adolescente, la sua vita sembrò imboccare un’improvvisa soffocante strettoia. Continuò a studiare grazie ad una borsa di studio, fu ordinato suddiacono, subito diventò maestro di retorica e predicatore famoso. Le sue prediche erano in dialetto per essere comprensibili a tutti, ma lui era ben lontano dal cliché del religioso tradizionalista. Al contrario, era uno studioso di storia e un umanista che cercava una mediazione fra il paganesimo dei classici e 1’etica cristiana, teorizzando che solo il raggiungimento del benessere collettivo poteva assicurare 1’armonico sviluppo di tutti gli individui. Quello che serviva era una saggia politica economica, che permettesse di scoprire e coltivare vocazioni utili alla società. Da parte sua De Cosmi cominciò ad elaborare un metodo pedagogico per niente provinciale, a partire dalla struttura del linguaggio e dall’insegnamento della matematica come studio degli schemi elementari del discorso. Quando dal 1759 al 1762 i giurati - vale a dire il Consiglio comunale - di Castronovo lo incaricarono di dirigere le scuole pubbliche di quel paese, lui programmò un insegnamento ripulito dalle implicazioni metafisiche, da adeguare «al naturale sviluppo dei bisogni, dei sensi, delle curiosità del fanciullo»: si trattava di un metodo sperimentale ispirato alla filosofia di Locke e Hume, in quegli anni adottato nelle più rinomate università europee. Da quel momento dedicò le sue migliori energie all’organizzazione della scuola pubblica. Era rettore del convitto universitario di Catania quando, nel 1767, l’espulsione dei gesuiti dalla Sicilia creava un campo d'intervento tutto da definire ed essenziale per la nascita del cittadino, cioè l'istruzione laica organizzata dallo Stato. De Cosmi si ritrova a dovere combattere contro la pletora dei tradizionalisti, attaccati come ad un articolo di fede a quella che lui chiamava la strana illusione che «la Sicilia fosse tra le nazioni illuminate». Era la solita permalosa percezione di sé che portava a vedere come nemici quanti si fossero azzardati a criticare l’esistente e De Cosmi usava parole di fuoco per bollare la «barbarie erudita» e le «scienze immaginarie» in cui s’erano dilettate intere generazioni di dotti. Col risultato che in Sicilia tutto il sapere era da rifondare, dal momento che una vera tradizione mancava in qualsiasi campo e anche le scienze empiriche come l'ingegneria, la geometria o la nautica si limitavano ad essere spunto per astrusi ragionamenti.
Scriveva: c'è «gran numero di medici ma senza esperienza fisica, senza meccanica, senza sezioni anatomiche: essi imparano la medicina dai libri e non dalla natura». Mancavano le scuole, e «il peggio è che neppure il bisogno ne è avvertito». A scontrarsi coi numerosi paladini di una tradizione inventata era una piccola pattuglia di riformatori, ma per un breve periodo i riformatori fiirono al potere. Nel 1779, nell’ambito della politica riformista del governo borbonico. De Cosmi venne incaricato di redigere un progetto per la regia università. Elaborò un piano mai diventato operativo, che riservava grande spazio alle scienze applicate come la meccanica, l'idraulica e la nautica e puntava all' aggiornamento dei docenti, nell' ottica di formare una categoria di tecnici in grado di capovolgere il ritardo già molto evidente in cui si trovava la Sicilia. Stava riorganizzando le scuole del seminario di Catania e al contempo insegnava materie ecclesiastiche quando venne accusato di eresia, colpevole della diffusione in quel seminario di un pensiero "miscredente" e le sue tesi, che volevano armoniosamente affiancare l'empirismo con l’ortodossia cattolica, furono condannate dalla Santa Sede. Allora si dimise dall’incarico perché, come scrisse nella sua biografia, «non si deve far del bene a chi non ne vuole». Fu uno dei pochissimi siciliani a condividere sino in fondo l’azione riformatrice del viceré Caracciolo. Quando il viceré scrive un suo libretto indirizzato all’opinione pubblica europea oltre che ai siciliani, per dimostrare i danni derivanti da un’economia fondata su un commercio ormai del tutto speculativo come quello del grano, De Cosmi non esita a sostenerlo. Stampa un suo commento che gli aliena molte simpatie, chiama Caracciolo «il filosofo governante» e argomenta con sorprendente modernità intorno a speculatori che «pongono a profitto le pubbliche calamità», sui vantaggi della piccola proprietà e l'importanza della politica: «gli uomini per lo più sono tali, quali li vogliono coloro in cui mano sta che siano in questa o in quell’altra maniera». Entrambi gli illuministi denunciano il sottosviluppo della Sicilia in cui tanta parte ha la sua classe dirigente, quel dipendere dalle "nazioni straniere" a cui è condannata dall’assenza di manifatture.

De Cosmi è per una società borghese sostenuta dall'etica della solidarietà, con lo Stato che attraverso l'istruzione renda possibile la riuscita di tutti i cittadini. La cultura diventa così la via per una "pubblica felicità" che è «l’aggregato del maggior numero possibile delle individuali prosperità», sembrandogli «malvagia e disumana» quella politica che coltiva l'ignoranza nazionale «sul falso presupposto che si governino meglio gli uomini degradati ed accecati, degli uomini illuminati». Nel 1788 riceve l'incarico di organizzare le scuole pubbliche in Sicilia, l’anno dopo Palermo ebbe la prima delle sue Scuole Normali dove fra la diffusa ostilità del baronaggio si insegnava al popolo a leggere, scrivere e far di conto. Scuole che, attivamente boicottate, solo in pochi casi riuscirono a sopravvivere. Nel frattempo era cambiata la storia, le paure suscitate dallo scoppio della rivoluzione in Francia preparavano la fine del riformismo nel Meridione. De Cosmi venne sospettato d’essere l'ispiratore della congiura giacobina di Francesco Paolo di Blasi, un’accusa che poteva costare la vita ma era palesemente infondata. Si isolò fra i suoi libri, continuò a scrivere pensando agli "uomini futuri" e, circa i suoi accusatori, un giorno annotò che se il loro giudizio era vero allora erano giacobini pure Platone, Cicerone, San Giacomo e la Divina scrittura. Ma «meglio errare con Platone che avere ragione con voi».-


Pirandello, Casteltermini e la terra che si muove e pensa


Nella mia vita ho sempre fatto di testa mia, a volte sbagliando, anzi spesso sbagliando. Quando ho dovuto leccarmi le ferite, ho seguito il consiglio di Tommaso da Campis, ho cercato la pace in un angolo con un libro.
Una delle tante volte che mi sono ritrovato a leggere un libro con funzione “consolatoria”, mi sono imbattuto in queste parole: «Paese di carogne! Va’ad Aragona, a due passi da Girgenti; va’ a Favara, a Grotte, a Casteltermini, a Campobello… Paesi di contadini e solfaraj, poveri analfabeti. Quattromila, soltanto a Casteltermini! Ci sono stato la settimana scorsa; ho assistito all’inaugurazione del Fascio». […] «bisognava vederli… Tutti pronti e serii… quattromila… compatti… parevano la terra stessa, la terra viva, capisci? Che si muove e pensa… ottomila occhi che sanno e che ti guardano… ottomila braccia…».
L’opera dalla quale ho preso questo breve estratto è del premio Nobel siciliano Luigi Pirandello, si tratta dei “Vecchi e i giovani” e parla, ancora una volta, di Casteltermini.
Pubblicato nel 1913, i “Vecchi e i giovani” è un romanzo di Pirandello di ambiente siciliano. Siamo nella Sicilia dei sanguinosi moti dei “Fasci” del 1893. Opera insolita nella produzione pirandelliana, in questo romanzo prevalgono gli interessi politici e sociali che prendono il sopravvento sui temi più cari al Nobel agrigentino, dell’individualità e della psicologia.
L’opera si sofferma sulla descrizione del climaterio che caratterizza la nascita di questo movimento rivendicativo e politico, a carattere socialista, sorto tra i contadini e i minatori, noto appunto con la denominazione “Fasci Siciliani”. La domanda che mi pongo è questa: davvero il “Fascio” di Casteltermini era il più grande e organizzato della provincia di Agrigento, così come racconta Pirandello, quanto è dovuto alla fantasia dello scrittore e quanto è vero?
Certo il terreno di coltura c’era tutto. Lo storico Francesco Lo Bue, nella sua opera “Uomini e fatti di Casteltermini”, così descrive la condizione dei lavoratori delle miniere:  <<generazioni di zolfatai andavano a lavorare in condizioni disumane, con il quotidiano pericolo di rimanervi schiacciati o asfissiati, senza sufficienti mezzi di protezione dai pericoli di crolli. […] (le miniere) avevano assicurato un lavoro a migliaia di operai e ad altrettante famiglie ma procurato solo un pane duro e amaro e provocato morti, lutti disperazione e pianti>>.
Foto storica CastelterminiLe condizioni economiche dei nostri zolfatai erano veramente disastrose ed erano lo specchio di tutta la Sicilia. L’insurrezione era inevitabile e Pirandello la descrive come la parabola di una forza che brontola fin dalle prime pagine, esplode ed è inesorabilmente schiacciata dallo “Stato d’assedio”. Questa misura, così drastica e pesante, offendeva il geloso sentimento degli isolani, indignati contro quest’altra sopraffazione. «La nativa fierezza, comune a tutti gli isolani, si ribellava a questa nuova onta che il governo italiano infliggeva alla Sicilia, invece di un tardivo riparo ai vecchi mali». L’antico profondo malcontento diventa ovunque d’un tratto fierissima indignazione contro quelle misure esose. Enorme è per lo scrittore la disparità fra quell’agguerrito spiegamento di forze e quei poveri affamati che nei paesini dell’interno «si raccoglievano in piazza, mandre di gente senza alcuna intesa, senz’altra bandiera che i ritratti del re e della regina, senz’altra arma che una croce imbracciata da qualche donna lacera e infuriata in capo alla processione».
La condizione dei nostri minatori e dei nostri contadini era in verità quella della miseria e della necessità. Al lavoro duro e male retribuito si devono aggiungere vessazioni delle quali si è persa la memoria. Gli affitti ai contadini erano esosi e superavano ampiamente i livelli di sfruttamento, il caporalato, le gabelle, manomorta, manoviva. Insomma, tutta una serie di soverchierie, che si aggiungevano al peso di un lavoro pesante e mal retribuito. La soverchieria più grande erano le anticipazioni di generi alimentari fatte dalla bottega del padrone-coltivatore a un tasso di usura elevatissimo. Il sistema era semplice e abominevole. Si ritardava la paga di un paio di settimane, nessun operaio aveva nemmeno il più piccolo capitale o un minimo di agiatezza, quando il pianto dei figli e le lamentele della moglie superavano il livello di sopportazione subentrava la disperazione, questa spingeva il povero operaio ad entrare nel tunnel del debito con il padrone, che non sarebbe stato più colmato. Il secondo passo, giacché il debito era incolmabile, era la paga in natura. Il padrone non dava più denaro all’operaio, ma solo il poco cibo che permetteva la sopravvivenza all’operaio e alla sua famiglia, cibo che sempre più spesso era cibaglia d’infima qualità.
Stabilito che le condizioni ci sono tutte per la creazione di un “Fascio” di grandissime dimensioni, cerchiamo di capire quanti abitanti faceva Casteltermini all’epoca dei fatti, lo Storico Lo Bue ne annovera circa tredicimila, diventa difficile credere ai quattromila iscritti al Fascio di Casteltermini, forse si trattava di quattromila manifestanti. La seconda ipotesi è più credibile, se teniamo conto delle donne e dei “carusi”, il numero è raggiungibile.
Statua dell'AnnunciazioneDalle poche parole del romanzo Pirandelliano si arguisce che la gran parte degli iscritti ai Fasci delle nostre zone erano minatori. Uomini dediti a una vita di sacrificio e di fatica, isolati sotto terra, per mesi non vedevano la luce del sole, andavano la mattina presto con il buio e tornavano la sera tardi. A volte, specie in inverno, affrontavano il lungo tragitto che li portava sul posto di lavoro sotto la pioggia e al ritorno era lo stesso e in più l’aggravante del terribile sbalzo di temperatura, in ultimo erano esposti a un’aria così malsana che la quasi totalità soffriva di malattie polmonari, e di queste spesso moriva.
Si capisce perché ai minatori di Casteltermini altro non restava che cercare la protezione Celeste. Fu così che nel 1890, un anno prima dell’inizio dei Fasci (1891-3), come si legge nell’opera “Calogero Cardella” di Giovanna Caramanna, arrivò in paese una meravigliosa statua dell’Annunciazione, i committenti erano i nostri poveri zolfatai, che la pagarono con il sudore della propria fronte. L’autore era appunto Calogero Cardella. Questo gruppo statuario si può ammirare ancora in Matrice, è composto da una splendida Madonna, l’Arcangelo Gabriele e un inginocchiatoio di finissima fattura. Io sono sempre stato affascinato da quella statua. All’età di dieci anni, circa dopo undici anni che la Miniera di Cozzo Disi era passata sotto l’egida della Società Chimica Mineraria Siciliana come si legge nell’opera di Sebastiano Infantino “La miniera di zolfo e la sua gente”, e le cose andavano meglio per i nostri minatori, mia nonna Marietta, devotissima, e sorella del defunto Padre Mondello, mi “spingeva” ad accompagnarla per seguire la messa. Io mi distraevo e seguivo poco, ricordo gli strattoni per farmi alzare durante la funzione. C’era però un momento che mi affascinava, dopo la messa, tutti i presenti si recavano a pregare sotto un simulacro, ognuno secondo la propria devozione. Mia nonna andava a pregare sotto la statua dell’Immacolata, io restavo nella zona dell’Annunziata, mi piaceva ascoltare quelle donne che pregavano, ne percepivo la devozione come qualcosa di mistico e di magico, dopo un poco la preghiera sembrava mutarsi in lamento ed io rimanevo ad ascoltare trattenendo il fiato. Dopo undici anni dall’innegabile miglioramento delle condizioni dei minatori c’era ancora chi soffriva, c’era chi era passato dalla fame alla fame d’aria, c’era chi vedeva il proprio giovane padre respirare a stento, c’era chi aveva bisogno del miracolo…
Monumento dei caduti nelle miniereE il miracolo avvenne, laico ma avvenne. Accadde una cosa che, quando mi è stata raccontata, mi ha riempito d’orgoglio. L’Ente Minerario che era diventato l’esercente, imitando lo stile delle miniere del nord d’Europa, ha istituito un premio di produzione. Ebbene, i nostri zolfatai si sono messi a produrre al di là di ogni aspettativa, mi diceva uno di loro prendevano più di premi che di stipendio, producevano così tanto… che la Regione alla fine gli tolse il premio! Quando mai in Sicilia si è premiato chi produce?
Ora la miniera è soltanto un ricordo, diventerà forse un museo, speriamo. Certo un sindaco sensibile c’è stato, il Professore Totò Lo Presti, nel 1996 ha dato incarico allo scultore Pino Cirami di realizzare un monumenti ai Caduti del Lavoro, così come si fa per i caduti in guerra, così come fa chi capisce il valore di quelle persone, di chi si è sacrificato per dare un domani alla nostra comunità, Francesco Lo Bue conta 325 morti in miniera.
La miniera di zolfo è stata chiusa, si è favoleggiato su pensioni a quaranta anni, non rilevando che queste persone avevano iniziato a lavorare in miniera a tredici e avevano magari ventisette anni di lavoro altamente usurante. Si è favoleggiato di buone uscite milionarie, si è dato modo al Castelterminese di esercitare la propria vocazione più naturale: sparlare. Sì, perché noi, dico noi castelterminesi, quando non possiamo commiserare, sparliamo. Io sono convinto che i nostri minatori andassero difesi, io sono convinto che si debba tornare a rileggere “I vecchi e i giovani”, per tornare a capire come si difende la propria terra, io sono convinto che ogni moneta in più che entra in paese sia un atomo di ossigeno per la nostra asfittica economia, io sono convinto, attualizzando, che se i lavoratori ASU scelgono forme di protesta radicali, il paese deve smettere di invidiare sonnecchiando e si deve mettere a fianco di questi lavoratori. Ho scritto troppe volte “io sono convinto”. Sarà, perdonatemi se non so scrivere di cose “rilevanti e perigliose”, io scrivo solo di ciò che sento.

Fonti:
Pirandello, L. (1932), I vecchi e i giovani, Milano, Mondadori.
Infantino, S. (2005), La miniera e la sua gente, Caltanissetta, Paruzzo.
Lo Bue, F. (1985), Uomini e fatti di Casteltermini, Palermo, Publisher F.L.B.
Colajanni, N. (1895), Gli avvenimenti di Sicilia, Palermo, Sandron Editore.
Caramanna, G.( 2006) Calogero Cardella, Canicattì, Tria Casalia
Chiarenza, L. (2004), Casteltermini attraverso le immagini, Bruxelles, New Vision E.

Profumo di donna, Rosa Quasimodo “la donna dei due scrittori”


Parlando con un vecchio amico della Stazione di Acquaviva il discorso è scivolato sulla presenza di due scrittori, tanto importanti, come Vittorini e Quasimodo in quel luogo tanto abbandonato, la "nostra" stazione.
Quasimodo, un premio Nobel; Vittorini il fautore del passaggio dalla cultura degli anni trenta alla nuova cultura democratica, entrambi nella nostra stazione? Ebbene sì. Anche se mi è stato più facile trovare le prove sulla presenza di Vittorini, pure Quasimodo ha abitato lo stesso luogo. Secondo il Luperini, La scrittura e l’interpretazione (Palumbo editore), tra il 1901 data di nascita e il 1908 data del trasferimento della la famiglia Quasimodo a Messina. Anche secondo Giulo Ferroni, Storia della letteratura italiana (Einaudi), il periodo più probabile di permanenza di Quasimodo nella stazione di Acquaviva è quello della prima infanzia. Diventa per me difficile, se non impossibile, trovare delle tracce più chiare del passaggio di Quasimodo, è comunque indubbio che il poeta siciliano abbia abitato la nostra stazione.
E il “profumo donna” del titolo? “Profumo di donna” è un film del 1974, diretto da Dino Risi, tratto dal romanzo “Il buio e il miele” di Giovanni Arpino. Presentato in concorso al Festival di Cannes 1975, è valso a Vittorio Gassman il premio per la migliore interpretazione maschile. Gassman interpretò il capitano in pensione Fausto Consolo, che rimasto cieco a causa di un’esplosione, ha sviluppato, nonostante la grave menomazione, la capacità di cogliere il fascino di una donna solo dal profumo da lei emanato. Nella nostra storia dov’è la donna? Tra Vittorini e Quasimodo il legame più forte non era sicuramente la nostra stazione, ma una donna affascinante e misteriosa della quale ho però faticato a tenere la scia.
Preso dalla curiosità di indagare mi sono imbattutto nella straripante personalità di una singolare signora: Rosa Quasimodo. Moglie di Vittorini e sorella del Nobel siciliano. Una figura sfuggente, la cui importanza si percepisce a naso, ma rimane quasi inafferrabile. A questo punto un dato è certo, anzi due, Vittorini e Quasimodo hanno abitato entrambi la Stazione di Acquaviva ed erano cognati. L’intrigo diventa interessante e la fantasia vola. La prima ipotesi che mi viene in testa è anche la più comoda e affascinante: Vittorini e Rosa si sono conosciuti nella nostra stazione, si sono innamorati e si sono sposati. Troppo semplice e soprattutto troppo bello. Non coincidono le date Salvatore Quasimodo nasce nel 1901, sua sorella Rosa nel 1905, Elio Vittorini nel 1908, data del trasferimento della famiglia Quasimodo a Messina. Peccato, avevo fiutato una bella storia… avevo sentito il profumo di fiori d’arancio e di rosa, l’ineffabile Rosa “fresca e aulentissima”, ma non è possibile, non ci si sposa a tre e zero anni.
E allora? A questo punto ho ritenuto doveroso continuare la ricerca. Grazie ad un lavoro un po’ più sistematico, scopro che nel 1984 Rosa aveva pubblicato un libro di memorie, Tra Quasimodo e Vittorini (Lunarionuovo), c’è solo un problema: l’edizione è esaurita da anni. Mi Arrendo? No! Scrivo una email alla casa editrice, spiego al meglio le mie ragioni… in brevissimo tempo mi arriva questa risposta; <<possiamo farle giungere, a giro di posta dalla sua eventuale ordinazione, copia anastatica del “Tra Quasimodo e Vittorini” di Rosa Quasimodo>>. Sul prezzo da pagare è meglio tacere, mi viene qualche dubbio, poi cedo alla curiosità. In poco tempo ho in mano il mio prezioso (mi sarebbe piaciuto dire libro) blocco di fotocopie. Sorvolo sulla questione della stazione alla quale non posso aggiungere più niente di nuovo e vado direttamente al rapporto tra Vittorini e i fratelli Quasimodo. La prima cosa che scopro cambia completamente la prospettiva: l’inaspettato. Rosa Quasimodo aveva conosciuto Elio Vittorini, figlio di un ferroviere, a Siracusa. Il matrimonio, nel 1927, era stato del tipo “riparatorio”, perchè i due giovani erano stati protagonisti della classica “fuitina” siciliana (il passare almeno una notte insieme all’insaputa dei genitori).
Elio Vittorini, il meno siciliano degli scrittori siciliani, l’autore de “Il Sempione strizza l’occhio al Frejus” si ‘nni fuj? Questo modifica la percezione che io ho sempre avuto di questo amatissimo autore, lo umanizza, me lo rende più vicino e soprattutto più siciliano. La curiosità diventa morbosa, fiutata la traccia non la mollo, adesso voglio sapere di più sulla fuitina. Una cosa è di facile deduzione, le età dei fujuti! ffrr Il matrimonio avviene nel 1927, Elio nasce nel 1908, Vittorini si sposò giovanissimo a diciannove anni. Anche Rosa era nel fiore degli anni, ma un po’ più grande, ventuno anni. La curiosità non si ferma, la fujtina viene descritta così nel ricordo di Rosa: “Una notte di agosto, presi accordi, mi aspettò alla finestra della sua camera, attraversai scalza tutta la tettoia della stazione ed entrai in casa sua…”. Il ruolo più attivo e più rischioso nella fuitina, nenche a dirlo, fu proprio della seducente Rosa.
A pieno titolo Rosa e con un pizzico di civetteria, ma anche con intenzionale autoironia, amava definirsi “la donna dei due scrittori” anche con il fratello ebbe un rapporto intenso che la portava spesso, pur essendo più piccola, ad assumere un ruolo protettivo, quasi da madre. Un altro stralcio dal libro di memorie di Rosa, ci rivela questo altro tratto della personalità di questa donna, molto legata al fratello poeta e che di lui ha lasciato delicati ricordi, come questo: “Una sera papà diede un manrovescio a Totò, che si lasciò scivolare sotto il tavolo e vi rimase. Io mi affannavo intorno a lui, cercando di rialzarlo e consolarlo, parlava di andarsene lontano, ma gli occorrevano soldi. “Lavorerò e li guadagnerò”, disse, e io piangendo gli offrii i miei gioielli: una catenina e un braccialettino…”
L’odorosa scia, il profumo di una donna di nome Rosa, mai nome fu più profumato e adatto, non ci deve fare dimenticare il punto di partenza: L’articolo di Marco Burgio sul degrado della nostra stazione… io non ci vado da tempo, ricordo che c’era un rosaio rampicante che saliva su una tettoia, le rose amano salire sulle tettoie, il vento ne porta il profumo, profumo di Rosa.

Vaniloquio a Casteltermini


Ogni libro è strumento di lettura e trasmettitore di cultura, ci sono però libri che diventano scrigni preziosi di mistero e a volte venerandi oggetti di culto. Leggere per me è un piacere fine a se stesso, il più delle volte la lettura non ha per me uno scopo secondario o peggio ancora primario, l’acquisizione di informazioni è uno stupendo effetto collaterale. Sia chiaro, non sto parlando dello “studio” ma della lettura “amena”, di quel fantastico momento in cui seduto sotto un albero apri un libro e questo diventa scrigno che si schiude e ti svela un segreto custodito come un gioiello.
Il gioiello di cui voglio parlare in questo mio articolo si chiama “Stazione ferroviaria Acquaviva Platani /Casteltermini”; sì proprio quel luogo che un illuminante servizio Marco Burgio ci ha svelato disastrato, sporco, fatiscente e pericoloso, eppure una frase del suo articolo, “Ti volti e vedi un altro edificio fatiscente con i vetri rotti e le colombe ancora una volta a farla da padrone”, mi ha ricordato che lì una volta abitava Elio Vittorini, che in quel posto ora infernale ha ambientato più di un episodio del suo capolavoro: “Conversazione in Sicilia”. Mi ricordo ancora che un tempo c’era un grande fermento culturale a Casteltermini, mi ricordo di un meraviglioso giornale, “Conversazione in Casteltermini”, che dall’opera traeva spunto e stimolo.
Stazione di Acquaviva-Casteltermini foto: Marco Burgio
Che tristezza, il degrado della stazione nella mia testa assurge a simbolo del degrado culturale del nostro paese. Le uniche discussioni interessanti che riusciamo a fare, le produciamo attaccati ad una tastiera, marchingegni elettronici ci spingono verso una solitudine reale mascherata da compagnia virtuale. Ricordo le discussioni coltissime tra Totò Lo Re, mio fratello, Alberto Callari e un altro emigrato, forse a Firenze, di cui non ricordo il nome, ricordo solo che disegnava molto bene. Io stavo in disparte, ero piccolo non solo anagraficamente, quelli per me erano giganti. Ascoltavo e, mi vergogno un po’ a scriverlo, ero felice.
Fu uno di loro a consigliarmi “Conversazione in Sicilia” di Elio Vittorini, con fare quasi paterno, temendo che non riuscissi a capire fino in fondo, mi consigliò di leggere l’introduzione, poi mi dette dei veloci ragguagli biografici sull’autore, era fiero quando mi anticipò che dentro vi avrei trovato riferimenti a Casteltermini. Avevo tredici anni, non ci capii niente. Da allora con “Conversazione in Sicilia” ho stabilito un rapporto d’amore che mi porta spesso a rileggerlo… e ora Marco mi ha spinto a riportare alla luce l’importanza che quel posto così degradato ha per me. In quella stazione è ambientato “Conversazione in Sicilia”, in quella stazione ha abitato Elio Vittorini, in altri posti questo basterebbe per fare di quel luogo un parco letterario, un luogo del ricordo, da noi no! Dalle nostre parti non si osa, si vola basso, spesso neanche sappiamo cosa abbiamo a portata di mano. Lasciamo stare il parco letterario, non lasciamo però che si degradi la stazione, facciamo in modo che sia pulita e ordinata come quella di Cammarata, diamo la possibilità a Marco e agli altri studenti dell’università di prendere il treno dignitosamente. La stazione per alcuni di noi resterà un luogo dell’anima, per altri sarà solo una stazione, per tutti è necessario che sia pulita e ben custodita. Ci sarà uno di voi che comprerà il libro e, in compagnia di un amico, da solo è meglio di no, il luogo è troppo pericoloso, andrà a leggere queste parole?
La madre descrive l’unico tradimento fatto a suo padre, a quanto pare gran libertino, con un soldato scappato che poi si reca a Bivona, leggete…
A Bivona? – dissi io. – Ma Bivona è lontana da Acquaviva…
E mia madre: -È di là dal monte. Una cinquantina di chilometri… tutti i paesi sono lontani una cinquantina di chilometri da Acquaviva.
-No, – dissi io. – Casteltermini è più vicino che cinquanta chilometri. Come mai non si fermò a Casteltermini?
E mia madre: – Forse a Casteltermini non c’era lavoro. O forse voleva continuare verso Palermo, e arrivò a Bivona, e lì decise altrimenti.”
(Elio Vittorini, Conversazione in Sicilia, Bur)
Stazione di Acquaviva-Casteltermini foto: Marco Burgio
Che fare? Io, forse a causa della dimensione onirica del romanzo, quando vado alla stazione vi sogno Vittorini bambino, sogno suo padre che recita Shakespeare, sogno il “Gran Lombardo”, sogno sua madre. Che fare? Leggiamo ancora una volta “Conversazione in Sicilia”, in un’epoca, dove non c’è più il personale alla stazione e a breve neanche la stazione, dove “Forse a Casteltermini non c’era lavoro”, non avrebbe avuto il forse, facciamoci prendere dalla magia ribalda del “Giro delle punture”.
È possibile leggere l’opera con due diverse chiavi di lettura: la prima è quella nel segno dell’allucinazione, del sogno. La mia preferita, senza punti di riferimento che diano continuità ai vari incontri del protagonista, i dialoghi estenuanti e ripetitivi, le situazioni fino allora estranee al panorama letterario italiano. Un’altra possibile interpretazione legge l’intera opera in chiave simbolica, quasi allegorica. Vittorini, avrebbe mascherato le sue reali intenzioni antifasciste dietro un romanzo i cui personaggi e dialoghi hanno più livelli di lettura.
Non importa quale sarà la vostra chiave di lettura, leggete… se non vi piacciono le mie, sono le più comuni, date una nuova interpretazione al testo. Ringrazio Marco Burgio per avermi suscitato questo ricordo, mi scuso con le persone che ho citato se in qualche modo ho provocato in loro imbarazzo o fastidio.
Michele Rondelli