La controversa origine dei “Fasci” a
Casteltermini
Il 5 luglio 2012 avevo pubblicato un breve saggio dal
titolo “Pirandello, Casteltermini e la terra che si muove e pensa”, in quella occasione si sviluppò
un bel dibattito con una serie di preziosi interventi di Piero Lo Re, Carmelo
Sardo, Carmelo Sciarrabone ed altri, ma uno in particolare ha suscitato
in me grande curiosità, diceva: ‘Con questa occasione vorrei ricordare che
molti anni fa il Dott. Francesco Maratta, recentemente scomparso e mai
adeguatamente ricordato, pubblicò un saggio dal titolo “Casteltermini,
sei mesi sotto i fasci” nel quale parla proprio di quell’ importante
fenomeno storico-sociale che caratterizzò Casteltermini e la Sicilia di quel
tempo. Caro Michele, lì troverai la risposta alle domande che ti hanno
suscitato le citazioni di Pirandello’. Era di Pietro Amorelli, bene, ho seguito
il suo consiglio e, dopo una serie di peripezie degne di Orione, sono riuscito
a procurarmi il prezioso volumetto.
All’interno, aveva ragione Pietro Amorelli, si trovano le
risposte alle domande che mi ponevo, ma anche una nuova serie di dubbi.
Una strana storia – Il primo elemento certo è la data della costituzione del
Fascio dei Lavoratori di Casteltermini, il 4 giugno 1893, il numero degli
<<affiliati>>, secondo Maratta, era di tremila circa. nello stesso
lavoro possiamo trovare il curioso rapporto, fatto in quella occasione, del
delegato di P.S. di Casteltermini al Sottoprefetto di Bivona. Eccone un
ampio stralcio:
<<L’origine della ideata formazione del fascio
operaio trae da un fatto di sua natura in perfetta contraddizione coi fine che
si propone la suindicata istituzione ed è il seguente: Nell’ultima domenica di
ciascun mese di maggio e per tre giorni consecutivi, ha luogo in questa comune
la cosidetta festa di Santa Croce a solennizzare la quale indipendentemente
dalla salmodiazione del clero si adoperano tali atti buffoneschi dai laici da
rendere ridicola la serietà delle funzioni religiose. Infatti prendendo a
pretesto di essere stata rubata alcuni secoli indietro dai Saraceni una croce
in campagna, a circa due chilometri da questo abitato, e rivendicata mercé un
combattimento ingaggiato dal ceto della cosidetta maestranza, si ha la parodia
di tale avvenimento con una clamorosa processione a cavallo di quasi tutti i
ceti, che vestono strani indumenti, simulando un combattimento, e quello dei
maestri destinato a portare la croce in processione tiene a capo tre individui
sorteggiati in ogni anno l’uno dei quali rappresenta un capitano, l’altro
l’alfiere ed il terzo un sergente che guidano gli operai i quali a loro volta
rappresentano i militi che rivendicano la croce.>>
<<Avviene spesse fiate, come nell’anno in corso, che
la scelta dei tre protagonisti non sia molto felice e quindi un certo malumore,
che si suscita nel resto dei maestri per effetto del quale ad un certo punto
quest’anno restarono a trasportare la croce soltanto il clero e i tre
comandanti senza la truppa che si sbando rimanendo fortemente adirati i
malcapitati armigeri(sic). L’agitazione degli stessi fu al
colmo, riunitisi colla numerosa classe dei solfatai decretarono ipso facto che
nell’anno seguente il trasporto della disgraziata croce sarebbe stato fatto dal
numeroso ceto dei solfatai od in altri termini i tre comandanti sarebbero stati
scelti e lo furono prontamente in persona di tre capimastri solfatai. Era
intenzione del nuovo sodalizio di prendere parte in forma ufficiale alle
processioni del Corpus Domini, principianti il 1° corrente mese, con un nuovo
vessillo religioso che rappresentasse una nuova confraternita della croce, al
cui operato il ceto dei maestri si oppose, come oppose il suo veto l’arciprete
di questa Diocesi (sic). M’interposi con questo signor
sindaco onde far cessare le ire accentuantesi, ed impedire un possibile
disordine visto che poco prudente sarebbe stato un divieto di dette funzioni e
mentre ne informai la S.V.Ill.ma a cui chiesi ed ottenni un temporaneo rinforzo
di Carabinieri, mi adoperai perché la calma non venisse, come non fu,
turbata>>;
Il delegato Leonardi – Secondo il Delegato di Pubblica Sicurezza Leonardi, la
nascita del più grande Fascio dei Lavoratori dell’Agrigentino, del Fascio cioè
descritto da Pirandello nel suo “I Vecchi e i Giovani”, non era da mettere in
relazione, come avveniva per gli altri Fasci in tutta la Sicilia, con le
terribili condizioni in cui versavano gli zolfatai e i contadini, ma era la
conseguenza di una banale lite, una delle frequentissime liti che purtroppo
anche ai giorni d’oggi si verificano, legata all’organizzazione della Festa di
Santa Croce? Che la Festa sia al centro di “Tutto” nel nostro paese, su questo
nessuno può avanzare dubbi, così come nessuno può avanzare dubbi che la
descrizione della nostra più famosa Festa fatta dal Delegato ha una funzione
volutamente dispregiativa, disprezzo che altresì coinvolge il Fascio di
Casteltermini, al quale viene tolta la dignità di giusta lotta dei lavoratori
per essere declassata a banale lite tra gruppi di persone legate
all’organizzazione di una festa. Il risultato però non cambia, Pirandello non
aveva esagerato quando aveva dato le proporzioni numeriche del Fascio dei
Lavoratori di Casteltermini: <<Paese di carogne! Va’ad Aragona, a due passi
da Girgenti; va’ a Favara, a Grotte, a Casteltermini, a Campobello… Paesi di
contadini e solfaraj, poveri analfabeti. Quattromila, soltanto a Casteltermini!
Ci sono stato la settimana scorsa; ho assistito all’inaugurazione del Fascio>>.
[…] <<bisognava vederli… Tutti pronti e serii… quattromila… compatti…
parevano la terra stessa, la terra viva, capisci? Che si muove e pensa…
ottomila occhi che sanno e che ti guardano… ottomila braccia…>>.
Trovata questa risposta, cerchiamo di capire meglio
l’atteggiamento del Delegato Leonardi.
L’agire del Delegato Leonardi farebbe pensare ad una
volontaria quanto fittizia sottovalutazione del fenomeno “Fascio dei
lavoratori” a Casteltermini, come se temesse le ire dei suoi superiori, e in
effetti si legge ancora in “Sei mesi sotto i Fasci”, in occasione di una
manifestazione con la quale gli organizzatori vollero dimostrare la loro forza
e alla quale Leonardi, per evitare guai peggiori, dovette dare
l’autorizzazione, al Delegato, che era stato costretto a concederla, arrivarono
le dure rimostranze dei propri superiori. Leonardi si nascose dietro la scusa
che la “passeggiata”, erano così definite le manifestazioni di questo tipo, era
stata concessa per conoscere con più facilità gli aderenti al Fascio.
In una seconda fase il rappresentante del governo, dopo
avere denigrato il Fascio, comincia a denigrare i suoi componenti, nelle sue
relazioni si leggono sempre più spesso delle formule che alla lunga destano
sospetto: “solfatai abbrutiti”; “ammoniti speciali”, “l’elemento onesto escluso”.
Insomma dall’atteggiamento del delegato si possono trarre due conclusioni: o
prima minimizzava per paura dei suoi superiori, o lo faceva seguendo una
strategia che gli veniva dettata dall’alto.
L’origine “etnica” dei Fasci dei
lavoratori siciliani
L’inchiesta di Giolitti – Una delle accuse che venivano mosse ai fasci dai delegati
di pubblica sicurezza, come abbiamo visto anche dal delegato di
Casteltermini, era quella di essere formati “escludendo gli elementi onesti”,
qualche delegato alzava ancora di più il tiro e definiva i Fasci delle
società di malfattori.
Sulla base di questa accusa Giolitti promosse
un’inchiesta amministrativa per accertare se vi fossero elementi sufficienti
per procedere allo scioglimento dei sodalizi in quanto associazioni a
delinquere. L’inchiesta ebbe esito negativo, i risultati dell’indagini non
furono tali da giustificare la pesante accusa. Il Prefetto delle “forze di
occupazione” Colmayer così scriveva nel suo rapporto: “dopo un attento esame
portato avanti sui singoli fasci ho rilevato che i condannati messi in
confronto col numero piuttosto considerevole dei consoci, sono una
insignificante minoranza. Ed è perciò che non mi sembra che si possa sotto
questo riguardo adottare provvedimenti di rigore a carico dei fasci” (M. Ganci, I fasci dei lavoratori,
Sciascia, Caltanissetta-Roma, 1977).
Torniamo al delegato Leonardi, e mettiamolo in relazione
con la stampa nazionale, come si diceva, in un primo tempo cercò di sminuire il
ruolo “rivoluzionario” del fascio di Casteltermini riduncendolo a
fenomeno “etnico-antropologico” e collegandolo a beghe nate in occasione della
festa di S. Croce, poi in linea con le accuse che vengono mosse da più parti ai
fasci , il delegato comincia a definire i lavoratori che aderiscono al fascio:
“solfatai abbrutiti”; “ammoniti speciali”, “l’elemento onesto escluso”, il
cambiamento di posizione del delegato sembrerebbe quasi conformarsi a un dictat calato dall’alto. In realtà, al
contrario di quello che afferma Leonardi, apprendiamo da Salvatore Lupo (Storia
della mafia. Dalle origini ai nostri giorni, Roma, Donzelli, 1993) che
numerosi fasci prevedevano nei propri statuti il divieto d’iscrizione “alle
persone che diano pubblico scandalo, ai pregiudicati, ai mafiosi”. Ci furono
delle deroghe a questo principio nei casi in cui i pregiudicati dimostravano di
volersi riscattare e di stare dalla parte dei lavoratori. E allora? La
sensazione che si ha è proprio quella di una posizione pretestuosa.
I turbolenti Siciliani – A questo punto appare assolutamente necessario dare una
veloce scorsa alla stampa nazionale, in particolare alle pagine del “Corriere
della Sera”, per scoprire che Giacomo Raimondi, principale penna
economico-finanziaria del quotidiano milanese, uomo da sempre propenso a una
politica sociale attiva da parte delle istituzioni, che alleviasse i mali delle
masse popolari italiane, scriveva apertamente che le cause reali dei Fasci
erano un “mistero”. Non solo: ricordando che i siciliani erano noti per la loro
turbolenza caratteriale fin dal tempo dell’antica Roma, arrivava ad adombrare
che “il quesito di Sicilia non sia soltanto economico e sociale, ma sia anche e
soprattutto etnico” (“Corriere della Sera”, 28-29 dicembre 1893). Siamo
arrivati alla “questione etnica”, i turbolenti Siciliani non lottavano contro
le politiche dello Stato Unitario, che aveva rovesciato sui Comuni la
responsabilità di assolvere a troppi servizi, dalle scuole alle strade, e che
per questo avevano reso sempre più esosa la tassazione; non lottavano contro le
terribili condizioni di lavoro alle quali erano sottoposti i nostri minatori e
i nostri contadini che erano, in verità, quelle della miseria e della
necessità; non lottavano contro affitti ai esosi che superavano
ampiamente i livelli di sfruttamento; non lottavano contro un lavoro pesante e
mal retribuito. Avevano messo in moto la macchina rivoluzionaria dei Fasci solo
perché penalizzati dalla crudeltà di una genetica avversa. Le tesi Giacomo
Raimondi sembrerebbero risentire delle tesi di razziste di Cesare Lombroso, che
ebbero grande influenza e popolarità in quegli anni. Sono anni, quelli, in cui,
come osservava Antonio Gramsci, tra le masse operaie del Nord si diffonde
l’idea secondo la quale: «il Mezzogiorno è la palla di piombo che impedisce i
più rapidi progressi allo sviluppo civile dell’Italia; i meridionali sono
biologicamente degli esseri inferiori dei semibarbari o dei barbari completi,
per destino naturale». Accanto alla popolarità, le tesi sull’inferiorità
antropologica dei meridionali suscitarono, però, non poco sdegno. Quanto quelle
tesi fossero assurde, scientificamente prive di fondamento, nonché
culturalmente e politicamente pericolose lo dimostrò assai efficacemente
Napoleone Colajanni, in un opuscolo intitolato assai significativamente “Per la
razza maledetta”. L’aspetto “antropologico” dei fasci sembra un tentativo, in
parte simile a quello del delegato Leonardi, di distogliere l’attenzione dalla
poco gradita matrice politica.
Il “Corriere” manda un corrispondente - La strada intrapresa dal “Corriere della Sera”
appare chiara: i fasci non possono essere una rivoluzione socialista i consoci
dei Fasci non sono altro che facinorosi in preda alle proprie turbolenze
caratteriali. Nel dubbio però il “Corriere” decise di mandare un “corrispondente”
in Sicilia, Alfredo Comandini. La posizione del giornale, almeno nella fase
iniziale, non cambia e Torelli una delle firme più prestigiose del giornale
milanese, mentre il suo collega partiva alla volta di Palermo, così
scriveva: “l’opera che va mano mano compiendosi, è opera di distruzione
selvaggia, la ragione ci dice che l’intervento della forza , e le repressioni
sono opera di salvezza degli italiani, e non di inasprimento, e noi dobbiamo
quindi, in nome dell’umanità, in nome della civiltà, in nome della patria,
approvare il Governo. (“Corriere della Sera”, 5-6 gennaio 1894).
I reportage che Comandini scrisse nei primissimi articoli
dalla Sicilia cominciarono a discostarsi dalla posizione iniziale che il
quotidiano milanese aveva assunto. Si cominciò a dimostrare attenzione per le
misere condizioni sociali dei lavoratori siciliani, compassione per le loro
pene, ma senza abbandonare la linea di sostegno al governo nella certezza
assoluta che il bene principale fosse quello di stroncare ogni potenziale
evento rivoluzionario. Quando si parla delle nostra regione non ci si può
esimere, qualunque sia il fenomeno analizzato, di tirare il ballo la mafia.
Comandini, nella sua analisi dei protagonisti della vita in Sicilia, per capire
quale ruolo giocasse ciascuna forza in quel complicato frangente, si chiese
quale peso potesse avere la mafia nell’agitazione siciliana, le sue parole non
lasciano incertezze: La mafia è una lega diretta alla tutela delle persone e
degli interessi all’infuori delle leggi e mercé il valore personale e la
influenza individuale degli adepti, e però la mafia non ha visto e non poteva
vedere di buon occhio un movimento che poteva riuscire a novità perniciose per
essa. La mafia ha fatto e fa da corrente conservatrice, in questi casi sa che
coi villani, coi non abbienti, con gli incitatori delle folle incoscienti e con
gli apostoli del socialismo ha poco da guadagnare, ed anzi, con costoro gli
interessi suoi andrebbero, sia pure temporaneamente di mezzo.
…mamma
li Russi!
Con Comandini alla scoperta della verità – L’inviato del
“Corriere della Sera”, come dicevamo nella seconda parte, nei suoi primi
reportage dalla Sicilia non si allontana dalla posizione ufficiale del
quotidiano milanese: attenzione per la misera condizione dei lavoratori
siciliani, ma sostegno al governo. Comandini in realtà era molto condizionato
da quello che dicevano sul “caso”
Sicilia i giornali del continente. Parlava sì del malcontento dei lavoratori
per la tassazione della farina, ma faceva proprie certe illazioni, che lui
stesso avrà poi modo di smentire, sui presunti contatti tra socialisti isolani e rivoluzionari
francesi.
Comandini
era un ottimo giornalista e ben presto si scrollo di dosso quelle che in realtà
erano posizioni pregiudiziali, cominciò a raccogliere personalmente le notizie,
si ambientò e si rese conto di quanto la realtà fosse lontana da ciò che veniva
raccontato dai giornali del continente.
L’inviato
milanese si rese presto conto di come lo stato di assedio gli impediva di
muoversi e di comunicare in libertà. La censura, scriveva alla redazione, era
“affidata come pare a persone che non sanno comprendere esigenze dei propri doveri con necessità del
pubblico servizio per stampa del continente”. Gli arrivò l’immancabile richiamo
delle autorità militari, si doveva celare al continente la vera natura dei
Fasci: lotta sindacale e politica di un movimento che aveva come unico
obiettivo di migliorare le condizioni di lavoro e di vita di zolfatari e
braccianti.
Qualche
tempo dopo il “Corriere” pubblico un pezzo del suo inviato di rara efficacia.
In primo luogo il cosiddetto moto rivoluzionario, che secondo molti esponenti
della stampa e della politica era stato a lungo preparato dai socialisti in
combutta con compagni stranieri, era in realtà un movimento spontaneo, che
nasceva dalle drammatiche condizioni di vita di gran parte della popolazione e
dalla ribellione agli interessi di casta dei proprietari terrieri. Comandini,
per nulla intimorito dai richiami dell’autorità militare, calco la mano fino ad
affermare che in questo contesto lo Stato non era assente, le istituzioni erano
presenti, solo che, come in altre regioni del sud, si erano disinteressate
della condizione dei propri cittadini per prediligere l’appoggio dei notabili
locali e dei loro accoliti, ai quali in cambio lasciavano mano libera per
signoreggiare sul resto della popolazione. L’inviato del “Corriere” definì la
condizione dei lavoratori siciliani indegna di un paese civile. Le forze di
pubblica sicurezza appoggiavano apertamente e senza pudore le fazioni di paese
che facevano capo al deputato ministeriale. Le anomalie nel rapporto
centro-periferia, imperniato sul notabile locale che fungeva da cigna di
trasmissione tra il governo e il territorio locale, nel sud, e specie in
Sicilia, raggiungeva livelli di perversione che scandalizzavano il cronista del
“Corriere”. Comandini non nascose neanche l’importante ruolo di deputati
socialisti come Bosco e De Felice, dicendo però che era la miseria a creare il
più grave disagio, a fomentare la ribellione e preparare il terreno per quella
che era riconosciuta finalmente come una
lotta sindacale e politica di matrice socialista.
Il “complotto” internazionale (…mamma li
Russi!)
– Con il diffondersi di notizie sempre più dettagliate e veritiere sulla questione
siciliana dei “Fasci dei Lavoratori” il governo centrale, e in particolare
l’Italo-Alabanese Crispi, si vedeva costretto a rincarare la dose. Si cominciò
ad insistere sul ruolo di non meglio identificati rivoluzionari francesi pronti
a contribuire al moto rivoluzionario siciliano, si parlò di armi fatte giungere
in Sicilia dalla Francia. Ancora Comandini ironizzò su questa ipotesi,
ritenendo la mossa del tutto inutile in una terra dove quasi tutti possedevano
almeno un’arma. La pista francese non faceva breccia nell’opinione pubblica
italiana. Sembrava inverosimile, e in effetti lo era, che orde di rivoluzionari
francesi fossero pronte a varcare le Alpi per dare manforte alla rivoluzione
siciliana.
<<Le
relazioni con lo straniero erano pure avviate, ma le definitive decisioni
furono prese in un convegno tenuto a Marsiglia. Fu stabilita la insurrezione
per metà febbraio, ma fortunatamente mancò in alcuni la virtù della pazienza.
Si faceva correre voce che una guerra sarebbe scoppiata nel 1894, si parlava
dell’invasione del Piemonte, di flotte vincitrici nel Mediterraneo,
dell’autonomia siciliana, e anche di un porto da darsi alla Russia, che
assumerebbe la protezione dell’isola nostra>>.
Per
zittire l’opposizione inferocita, il 28 febbraio 1894 Crispi portò in
parlamento «le prove». In primo luogo, il «trattato internazionale di
Bisacquino», sottoscritto dal governo francese, dallo zar di Russia,
dall’onorevole Giuseppe De Felice, dagli anarchici e dal Vaticano, il cui
obiettivo era quello di staccare la Sicilia dal resto del Paese, per porla
sotto il protettorato franco-russo. Poi, il «proclama insurrezionale», trovato
nella casa di un pastaio di Petralia Soprana, col quale si invitavano ad
insorgere «gli operai, figli dei Vespri». Prove “pesanti”, ma spudoratamente
false. Montature costruite ad arte da “zelanti” funzionari, per giustificare la
repressione di un movimento popolare, che rivendicava semplicemente condizioni
di lavoro più umane.
Il
“Trattato di Bisacquino” fu chiamato così non perché sottoscritto nel comune
del palermitano, ma perché inventato di sana pianta dal delegato di Pubblica
Sicurezza di Bisacquino, il napoletano Sessi. Dunque niente armi francesi,
niente navi russe, niente invasione del Piemonte, solo la fantasia di un
delegato di pubblica sicurezza. Se non fossimo a conoscenza degli eccidi
perpetrati per reprimere i fasci, costati la vita a decine di inermi
lavoratori, ci sarebbe da ridere.
Fedeli ai precetti della religione e
all’ordine sociale
– La Chiesa siciliana dalla parte di chi stava? Certo non dalla parte dei
socialisti, apprendiamo da “I Fasci Siciliani” di Francesco Lo Bue che il Cardinal Celesia non
aveva nessuna tolleranza per la lotta di classe, invitando le plebi alla
rassegnazione. E quando la Chiesa fu accusata di non far nulla in favore degli
infelici suoi figli, contadini e operai, il vescovo di Caltanissetta così
rispose: << I colpevoli vogliono passare per innocenti… le false
insinuazioni e le calunniose imputazioni sono smentite dalla realtà del fatto. Il
socialismo col suo nuovo trovato della proprietà collettiva e con la falsa
teoria dell’uguaglianza sociale ed altre somiglianti, smuove le basi della
convivenza sociale>>. Lavoro durissimo e male retribuito, affitti esosi,
caporalato, gabelle, manomorta, manoviva, tutto questo, secondo la Chiesa
siciliana, doveva essere tollerato per garantire la “convivenza sociale”. Un
tipo perverso di convivenza sociale, dove però i ricchi erano sempre più ricchi
e i poveri sempre più poveri, dove i privilegi della Chiesa erano salvi, e dove
i pastori non si commuovevano davanti alla malasorte delle proprie pecorelle,
nemmeno quando queste finivano sotto il piombo dei carnefici impegnati a
garantire la “convivenza sociale”. I capi dei Fasci non fecero mai una aperta
divulgazione anticattolica, si sarebbero alienati il consenso di molti
partecipanti, i quali spesso manifestavano portando ed esponendo immagini
sacre. Durante le cosiddette “passeggiate” c’erano tanti segni di fede ma
mancavano i preti.
La
Chiesa, e questo è il paradosso più grande, non stava neanche dalla parte del
Governo, colpevole di avere strappato dalle mani del Santo Padre ogni potere
temporale. Il governo liberale era causa diretta di un deterioramento generale
e quindi causa indiretta dei Fasci. L’ordine era stato distrutto dai liberali
in nome dell’unità nazionale, delle libertà e dell’uguaglianza civile.
Fine di ogni speranza di rinnovamento
civile –
Torniamo a Casteltermini. Vista l’origine” “festosa” dei Fasci dei lavoratoti
di Casteltermini ci si aspetterebbe che tutto finisca con il classico: “damuci
a viviri!”. Invece no, il Fascio di Casteltermni fu sciolto, i suoi membri processati e
condannati secondo le pene che leggerete e che chiudono il mio modesto lavoro:
Bivona Giuseppe di Giovanni,
Presidente: 2 anni 4 mesi e 27 giorni di reclusione, un anno di vigilanza
speciale di P.S., lire 550 di multa.
Mondello Giuseppe di
Benedetto: 2 anni 4 mesi e 27 giorni di
reclusione, un anno di vigilanza speciale di P.S., lire 550 di multa.
Acquisto Carmelo fu Vincenzo: 8
Mesi e 20 giorni di reclusione, un anno di vigilanza speciale di P.S., lire 600
di multa.
Arnone Epifanio fu Salvatore: 1
anno 5 mesi e 27 giorni di reclusione, un anno di vigilanza speciale di P.S.,
lire 500 di multa.
Antinoro Santo di Carmelo: 1
anno 5 mesi e 27 giorni di reclusione, un anno di vigilanza speciale di P.S.,
lire 500 di multa.
Cordaro Vincenzo fu Ignazio: 1
anno 5 mesi e 27 giorni di reclusione, un anno di vigilanza speciale di P.S.,
lire 500 di multa.
Circo Gaetano fu Paolino: 1 anno 5 mesi e 27 giorni di
reclusione, un anno di vigilanza speciale di P.S., lire 500 di multa.
Di liberto Gaetano fu Giuseppe: 1
anno 5 mesi e 27 giorni di reclusione, un anno di vigilanza speciale di P.S.,
lire 500 di multa.
Piazza Domenico fu Vincenzo: 1
anno 5 mesi e 27 giorni di reclusione, un anno di vigilanza speciale di P.S.,
lire 500 di multa.
Spoto Mortillaro Gaetano fu Felice: 1 anno 5 mesi e 27
giorni di reclusione, un anno di vigilanza speciale di P.S., lire 500 di multa.
Agnello Giuseppe di Calogero: 1
anno 5 mesi e 27 giorni di reclusione, un anno di vigilanza speciale di P.S.,
lire 500 di multa.
De Marco Antonino di Giuseppe: 1
anno 5 mesi e 27 giorni di reclusione, un anno di vigilanza speciale di P.S.,
lire 500 di multa.
Scozzari Antonino di Nicolò: 1
anno 5 mesi e 27 giorni di reclusione, un anno di vigilanza speciale di P.S.,
lire 500 di multa.
Minnella Calogero fu Giuseppe: 1
anno 5 mesi e 27 giorni di reclusione, un anno di vigilanza speciale di P.S.,
lire 500 di multa.
Amoroso Angelo: 1 anno 2 mesi
e 22 giorni di reclusione, un anno di vigilanza speciale di P.S., lire 500 di
multa.
Termini Gaetano: 1 anno 2 mesi
e 22 giorni di reclusione, un anno di vigilanza speciale di P.S., lire 500 di
multa.
Ballone Calogero: 1 anno 2 mesi
e 22 giorni di reclusione, un anno di vigilanza speciale di P.S., lire 500 di
multa.
Mistretta Alfonso: 5 mesi e lire
200 di multa.
Termini Calcedonio: 5 mesi e lire
200 di multa.
Ferlisi Ignazio: 5 mesi e lire
200 di multa.
Severino Vincenzo: 5 mesi e lire
200 di multa.
Ferlisi Ferdinando: 5 mesi e lire
200 di multa.
Scozzari Giuseppe: 5 mesi e lire
200 di multa.
Cosenza Alfonso: domicilio
coatto a Lampedusa
Pellitteri Francesco Paolo: domicilio
coatto a Lampedusa
Barcellona Raffaele: domicilio
coatto a Lampedusa
Bibliografia
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N.
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L.
Lo Bue, I Fasci Siciliani, LIS, Palermo, 1990
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