venerdì 27 novembre 2020

Testa di zorbu!

 


Testa di zorbu! Vi è mai capitato di sentirlo dire? Quest’espressione sembra quasi omologa a “testa dura”. In realtà una facile spiegazione potrebbe essere legata alla durezza del legno di sorbo, tanto che si legge in un sito specialistico: “Il legno di sorbo può presentare occasionalmente, al suo interno, dei depositi di corteccia molto scuri, tendenti al nero, chiamati dipinte. La lavorabilità del legno è relativa, dal momento che, già duro di suo, essiccandosi tende a indurirsi ulteriormente, rendendo le operazioni di taglio oltremodo difficoltose”. Quindi il legno di sorbo è particolarmente duro e una testa di zorbu può essere una persona con la testa particolarmente dura. Il mio amico Graham Clifford sostiene l’esatto contrario, che l’espressione fa riferimento non tanto alla durezza dell’albero quanto alla squacquerartezza del frutto, quindi l’espressione farebbe pensare a cose come: hai il cervello in pappa. Poiché Graham è irlandese e io siciliano mi tengo la mia spiegazione e “testa di zurbu” continuo a considerarla testa dura!

La bontà nella marginalità  

I frutti autunnali, specie quelli più marginali: le nespole invernali, i caccami, i cachi, le sorbe, portano in loro la bellezza e al tempo stesso la tristezza della stagione. La campagna sicana in autunno si tinge di colori straordinari,  attingendo ad una meravigliosa tavolozza di tonalità dorate, così come straordinari sono i suoi frutti. Quasi tutti necessitanti di ammezzimento, cioè del processo di maturazione che ne provoca l’imbrunimento della polpa,  indispensabile perché le nostre sorbe siano commestibili. Il sorbo domestico (Sorbus domestica) è un albero da frutto dall’elevato valore ornamentale molto comune nei monti sicani, durante una salutare passeggiata autunnale ci sorprenderà, svettando, con i suoi frutti gialli e rossi. Coltivato da secoli per i suoi frutti, le sorbe, era molto apprezzato dagli antichi romani che ne andavano ghiotti. I Romani lo fecero conoscere al resto dell’Europa. Virgilio, nelle Georgiche (III, 380), narrando di popolazioni che vivevano nell’Europa dell’Est, a nord del Mar Nero, racconta che dopo le caccie al cervo nella neve si riunivano in grotte dove accendevano grandi fuochi e “…trascorrono la notte nel gioco, e allegri imitano la bevanda delle vigne con quelle di orzo fermentato e acide sorbe”. L’etimologia del latino sorbus è incerta: secondo alcuni deriverebbe dal verbo sorbeo = bere, assorbire, in quanto i frutti del sorbo arrestano i flussi dell’intestino. Di questo avviso terapeutico del sorbo erano Dioscoride e Galeno. Tuttavia, pare assai più verosimile un’etimologia indoeuropea, da *sor-bho = rosso, il colore dei frutti.

Gli “zorbi” e la magia

 Mia madre ne appendeva due rametti nel balcone per fare modo che i frutti maturassero (forse sarebbe meglio dire marcissero) per poi poterli mangiare. Ogni mattina procedevo all’ispezione dei frutti e appena uno si deformava mollo tra le due dita, era pronto per essere mangiato. Ma siamo sicuri che si appendevano fuori solo per poterle mangiare? In molte leggende il sorbo è una pianta molto importante, che protegge chi ne possiede un esemplare ed anche chi, semplicemente, decide di appenderne una fascina o una ghirlanda alla porta o alla finestra, scacciando in questo modo gli spiriti maligni. Se vi fate un giro per le campagne dei Monti Sicani vi capiterà spesso di trovarlo vicino alle case o anche davanti alle chiese di campagna, forse per tenere lontane le streghe e come protezione contro le energie negative. Si narra che i Druidi e i maghi da questa pianta ricavassero le loro straordinarie bacchette divinatorie e che l’indossare il legno di sorbo aumentasse notevolmente i poteri psichici. Un antico amuleto di protezione veniva costruito con questa pianta, ed utilizzato in Scozia e in Cornovaglia, usando due ramoscelli legati fra loro in modo da formare una croce.

         Chissà se funziona davvero? ma anche se non dovesse funzionare... mangeremo delle ottime sorbe e faremo il pieno di preziose vitamine (A, B1, B2, C, E e PP).





lunedì 23 novembre 2020

Turlupinare, un verbo caro alla nostra politica

 

         Quante volte durante i comizi delle campagne elettorali avete sentito il verbo “turlupinare”? E se tutti più o meno abbiamo chiaro il suo significato: raggirare, ingannare beffando la buona fede o l’ingenuità altrui, non tutti ne conosciamo la curiosa origine. I politici di ieri e di oggi, e sospetto anche quelli di domani, durante i comizi si producono in sperticati appelli agli elettori a “non lasciarsi turlupinare” dagli avversari politici, poiché il verbo sul palco della nostra politica va particolarmente di moda, alla fine non si riesce a distinguere i turlupinati dai turlupinanti.

         L’origine della parola è particolarmente affascinante e complessa. Pare che a Parigi, nel 1300, esistesse una setta detta dei Turlupini che si vantava di avere raggiunto la perfezione cristiana, questo permetteva ai suoi adepti di poter commettere qualsiasi atto senza correre il rischio di peccare, secondo il detto di San Paolo: Tutto è puro per i puri (Lettera a Tito 1,15).

Secondo la loro principale ideologa, la parigina Jeanne Dabenton, che predicava la povertà e il girare completamente nudi,
 non era peccaminoso soddisfare le proprie passioni e i desideri dei sensi per i “turlupini”, quindi che non c'era nulla di cui vergognarsi negli atti sessuali. Alcuni autori cattolici riportarono che essi, convinti di questi concetti, si lasciavano andare ai più scatenati e vergognosi eccessi sessuali.

Dal momento che i preti non sopportano che si faccia all'aperto ciò che loro praticano di nascosto, (mi riferisco alla povertà! Che avete capito maliziosi?), il 4 luglio 1372 la setta fu condannata e i suoi seguaci scomunicati da Papa Gregorio XI: la Dabenton, con altri suoi seguaci, fu bruciata nello stesso 1372 in Place de Grève. Non è difficile immaginare come le idee dei Turlupini potessero facilmente essere additate come false e i Turlupini come turlupinatori, ma in realtà non è così.

         La vera origine del termine si deve a Turlupin. Ovvero Henri Le Grand, un attore teatrale francese, considerato uno dei maggiori comédien della sua epoca.

Turlupin recitava indossando un ampio mantello e un cappello a larghe tese. Il volto era quasi nascosto da baffi e barba. Dopo aver montato un piccolo palco nella piazza di qualche paese, rallegrava la gente minuta con le sue farse, volgari e di cattivo gusto, non vi ricorda qualcosa accaduta di recente?

Turlupin era molto apprezzato dal pubblico plebeo che si riconosceva nella crudeltà della sua satira e restava affascinato dalla complicata costruzione delle turlupinades.

Dal suo pseudonimo derivarono numerosi vocaboli: turlupin prese a indicare il pagliaccio che assieme a Brighella è l'emblema della commedia dell'arte, mentre turlupinades erano detti gli scherzi e le freddure (ma anche i giochi di parole e gli equivoci che ne derivavano), così come turlupiner voleva dire beffare. Con il passare del tempo, dall'innocente canzonatura, il termine ha assunto il più pesante significato di imbrogliare o raggirare.

Anche in italiano, col medesimo significato, è entrato nell'uso comune il termine turlupinare.

sabato 21 novembre 2020

Il cielo stellato sopra di me...


- Metti la mascherina perché i carabinieri fanno le multe!

- La mascherina la metto perché è giusto metterla...

         Se metto la mascherina solo perché ho paura delle multe, il mio comportamento è legale ma non è morale. Sarebbe moralmente più giusto se tutti noi ci comportassimo correttamente per senso del dovere e non per timore delle pene. Il fatto che non rispettare le regole anticovid, cosa  pericolosissima, è "solo" una circostanza aggravante, peggiora le cose. Nel caso in esame essere legale ti salva il corpo, essere morale ti salva anche lo spirito. Rispettare le regole, rispettare la legge perché è giusto farlo significa essere eticamente maturi. Significa ridurre al minimo possibile i rischi per te e per gli altri.

         Per fortuna l’etica e la morale non ammettono nessuna sciatteria di sorta, non permettono nessuna via di fuga, out out! L’essere etico, come la responsabilità penale, è personale. Per questo non ho mai creduto nell’onestà di massa, perché anche l’onestà è un fatto personale. La moralità è una istanza che devi discutere con te stesso e, se ci credi, forse con Dio. La legalità è un fatto relativamente più semplice, rispetti le regole per non incappare nella sanzione, va bene lo stesso. La cosa si complica quando si ha la certezza che nessuno ci può vedere, che nessuno può sapere, quando saremo ancora soggetti agli obblighi ma in tragica solitudine a confronto con la nostra coscienza. L’uomo morale non avrà nessun dubbio... l’uomo legale farà i conti con se stesso. Alzerà gli occhi al cielo e vedrà uno splendido cielo stellato sopra di lui, poi abbasserà gli occhi per cercare la “legge morale” dentro di sé, se non la troverà, dopo gli occhi... abbasserà la mascherina!

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mercoledì 18 novembre 2020

Nonna Marietta e i salamelecchi

                La prima volta che ho sentito la parola salamelecchi  (nella versione in siciliano salamalicchi) è stata mia nonna Marietta a pronunciarla. Era da poco passata l’Immacolata e come sempre in casa mia avevamo fatto l’albero di Natale e un popolatissimo presepe. Qualche giorno dopo, andando a casa di mia nonna, mi accorsi che il suo presepe constava solo della grotta e dei personaggi principali, mancavano i re magi, l’angelo, i pastori. Ero molto piccolo e la cominciai a tormentare per convincerla a comprare qualche altro personaggio. Alla fine la mia azione di logoramento ebbe la meglio, così ci recammo in quello che allora era un notissimo negozio che vendeva di tutto, una specie di bazar, oggi lo chiameremmo “trova tutto”, con la promessa solenne che non avrei preteso più di 5 statuine. 

            La commerciante era una tosta ed esordì con il classico “Che biddu stu picciliddu! Di cu è figliu?” Mia nonna rispose e la signora mi riempì di complimenti. Poi le chiese delle sue cugine, gli ricordò la santità del defunto fratello sacerdote e via così in un turbinio di parole e gesti. Infine si rivolse di nuovo a me, chiedendomi cosa volessi e io le elencai tutto di un fiato: “I tre re magi, un pastore e un angelo per il presepe”. La replica fu immediata: “Questi soli?”. Cominciò il suo panegirico del presepe, partendo dalla solitudine del pastore senza le pecorelle e delle pecorelle senza il cane (2 pastori + 5 pecorelle + 1 cane = 8); “E i cammelli? Chi vinnuru a pedi sti poveri re magi?” (3 cammelli + 3 magi = 6 – totale 14 statuine); “E lu spirdatu? Chi presepiu è? senza lu spirdatu?” (+ 1 spirdato 15); “Nardu, ci voli puru Nardu, cu a va piglia sennò  l’acqua?”, un personaggio che dormiva beato, (+ 1 Nardu 16); “Michilù, ma ti pari giusto ca l’unica fimminedda è la Madunnuzza?”, risultato altre due statuine di donne con le galline e due pastorelle, le mogli dei pastori a detta della signora, oltre ad un gallo bellissimo, 3 gallinelle e due ochette; siamo a 26 statuine alle quali vanno aggiunti il cielo stellato, la carta per le montagne, un cancello e un ponticello. Totale 30 pezzi! Uscimmo e mia nonna finse di essere contrariata, ma in realtà era molto divertita. Fu in quel momento che disse: “Chista cu tutti ‘sti salamalicchi ni stava vinninnu tutta Bettilemmi!” (Traduzione: “Questa con tutti questi salamelecchi ci stava vendendo tutta Betlemme!”). Ecco la prima volta che sentii salamelecchi...

                Ancora oggi la parola suscita curiosità e già dalla pronuncia assume una nota che sembra suonare beffarda. Andiamo alla sua origine.

                Questa volta partiamo dal “Dizionario Sentimentale della Parlata Siciliana” così scrive Gaetano Basile: Salamalicchi quando qualcuno era ricevuto “cu tanti salamalìcchi” voleva dire che i suoi ospiti erano molto cerimoniosi, gli erano stati riservati fin troppi convenevoli. Deriva da un’antica e cerimoniale forma di saluto musulmano che recita salam aleikum, che in lingua araba vuol dire pace a noi; oppure nella forma singolare salam aleik, pace a te. A questo saluto si usa replicare altrettanto solennemente con aleikum salam (a noi la pace, con la formula rituale di conferma rovesciata dell’augurio assai usata anche in alcune forme di saluto cristiano.

Salamelècco (ant. salamelècche) s. m. [dall’arabo salā’m ῾alaik, propriam. «pace su te», formula usuale di saluto] (pl. -chi). – Saluto, atto di ossequio, complimento troppo cerimonioso e affettato: lo accolse con molti s.; tornando in macchina, aprì dall’esterno il mio sportello e mi fece scendere con un s., come fossi un ministro (Sandro Veronesi); non riesco a sopportare tutti quei s.; a tutti i membri dell’Accademia della Crusca io sono pronto a fare un profondo salamelecche (Baretti).

(www.treccani.it/vocabolario/salamelecco)

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venerdì 13 novembre 2020

3 libri contro la paura

 


Questi che sto trascorrendo sono giorni inusitati, incerti e terribili. Giorni nei quali sono in preda alle paure: quella di essere infettato, della morte, del degrado. Mi fa paura la caccia all’untore sui social, neanche nella Milano del 1630 si leggevano cose come quelle che si leggono adesso su Facebook. Mi fanno paura quelli che, per un malinteso senso dello politica, per beghe personali, per cattiveria in loro connaturata continuano il tiro al bersaglio, l’indovina chi, la caccia alle streghe. Sarebbe più logico provare a farsi scudo l’un l’altro contro il pericolo che stiamo correndo, con la consapevolezza di far parte tutti, indistintamente, di una “aspra sorte” e di potersi proteggere da essa solo con la collaborazione reciproca, senza spinte individualistiche, senza inutile astio.

Ho paura, soprattutto della mia stessa ignoranza, del non riuscire neanche lontanamente a capire cosa sta accadendo. Ho paura dei virologi improvvisati laureati su Facebook, di quelli che leggendo un titolo dell’Eco online di Carrapipi hanno capito tutto e pretendono di dare lezioni a fior di scienziati e, cosa ancor più pericolosa, di fatto dando lezione di ignoranza a decine di ben pensanti. Poche cose mi sono chiare, anzi pochissime: devo usare la mascherina, devo lavare e disinfettare le mani ogni volta che è necessario, devo mantenere la distanza, uscire solo in caso di necessità, evitare gli assembramenti, pazientare… mi sono chiare perché queste cose le afferma chi sa più di me, chi ha studi specifici ed è nel suo campo. Non sappiamo quando tutto questo finirà. Mi piange il cuore al pensiero dei morti e di chi ha paura di morire; soffro al pensiero di quello che stanno passando le attività commerciali, per tutto quello che posso compro in paese; mi angoscia non sentire il vocio dei ragazzini che giocano sotto casa mia.  Esco solo per necessità, sto a casa e leggo. 

Non avendo ricette miracolose per risolvere questa crisi, l’unica cosa che mi sento di fare è consigliarvi qualche lettura, secondo il mio personale opinabile e pertanto potenzialmente non condivisibile gusto. Ho sempre considerato la lettura un baluardo di libertà, l’unica possibilità di andare dove voglio e incontrare mondi e persone sconosciute. So che sto dicendo una banalità, ma posso girare per strade e incontrare persone, senza paura di contagi e senza mascherine, nei libri.

Prendete la vita con leggerezza, che leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore.
(Calvino - Lezioni americane)

1) Il primo libro che vi consiglio è Il club delle lettere segrete di Ángeles Doñate, la traduzione è di Alice Pizzoli, pubblicato nel 2015 nella collana “I Narratori” di Feltrinelli. La cosa che mi ha spinto a comprare questo libro, prendendolo in estate in edicola da “Punto e Virgola”, senza conoscerne il contenuto, è stata la frase che campeggia nella quarta di copertina: “I baci scritti non arrivano a destinazione, ma vengono bevuti dai fantasmi lungo il tragitto”. Una frase evocativa, che ha fatto sì che lo scegliessi, anche se, devo dire la verità, io sono convinto che sono i libri che, occhieggiando, dagli scaffali scelgono noi! Il club delle lettere segrete per me rappresenta una lotta strenua alla scomparsa di valori fondamentali, salvare l’ufficio postale e il lavoro di una delle protagoniste non è l’unico scopo. Lo scopo principale in realtà è quello di mettere in salvo le parole che saranno scritte nelle lettere, perché altrimenti non sarebbero state scritte in nessun altro posto. Andiamo al dunque, è arrivato l'inverno a Porvenir, e ha portato con sé cattive notizie: per mancanza di lettere, l'ufficio postale sta per essere chiuso e il personale verrà trasferito altrove. Sms, mail e whatsapp hanno avuto la meglio persino in questo paesino arroccato tra le montagne. Sara, l'unica postina della zona, è nata e cresciuta a Porvenir e passa molto tempo con la sua vicina Rosa, un'arzilla ottantenne che farebbe qualsiasi cosa per non separarsi da lei e risparmiarle un dispiacere. Ma cosa può inventarsi Rosa per evitare che la vita di una delle persone che le stanno più a cuore venga stravolta? Forse potrebbe scrivere una lettera che rimanda da ben sessant'anni e invitare la persona che la riceverà a fare altrettanto, scrivendo a sua volta a qualcuno. Pian piano, quel piccolo gesto innescherà una catena epistolare che coinvolgerà una giovane poetessa decisa a fondare un book club nella biblioteca locale, una donna delle pulizie peruviana, una cuoca un po' maldestra e tanti altri, rimettendo in moto il lavoro di Sara e creando non poco trambusto fra gli abitanti del piccolo borgo. Perché - come ben sanno tutti quelli che provano un brivido di gioia ogni volta che ricevono posta a sorpresa e che affondano il naso nella carta per sentirne il profumo - una lettera tira l'altra, come un bacio. E può cambiare il mondo.

2) Il secondo libro che vi consiglio è Nostra Signora della solitudine di Marcela Serrano ancora per la collana “I Narratori” di Feltrinelli, tradotto da Michela Finassi Parolo. Se il libro precedente mi ha scelto, questo è venuto addirittura a cercarmi a casa. Vi racconto come ci siamo conosciuti con questo libro: una  compagna di classe di mia figlia, per il suo compleanno, le ha regalato due libri, regalo graditissimo (anche dal papà!). Uno dei due è questo che vi consiglio. Non fatevi ingannare da titolo Nostra signora della solitudine è un giallo che sa coinvolgere e mantenere con il fiato sospeso fino alla fine. La narrazione ha ritmi sudamericani, non si può dire velocissima, specie quando entrano in gioco sentimenti e le inquietudini che animano le protagoniste. Un giallo sì ma anche un’occasione per riflettere sulla solidarietà. La quarta di copertina racconta… Nel caldo torrido dell'estate cilena, Carmen Lewis Ávila, scrittrice di grande successo, scompare. La polizia archivia il caso ma Rosa Alvallay, investigatrice privata, ottiene l'incarico di ritrovarla. Rosa non è una persona molto appariscente: è sui cinquanta, classe media, due figli e un divorzio alle spalle. Eppure, nonostante questa sua apparente mediocritas, capisce che il segreto di Carmen e l'enigma della sua scomparsa potrebbero celarsi nei suoi romanzi che riflettono le pulsioni di un'anima inquieta. L'indagine rivela molte cose della scrittrice: è istintiva, innocente, sempre a disagio nel mondo, tormentata dall'abbandono. La sua infanzia è stata segnata dall'irrequietezza dei suoi genitori, due hippy sempre in fuga sino all'approdo in India. Poi si innamora di una serie di uomini impossibili o sbagliati e cerca di esorcizzare la vita scrivendo polizieschi. Infine incontra Tomas Rojas, rettore universitario, uomo-certezza, uomo-rifugio. Ma l'insoddisfazione, l'inadeguatezza, la nostalgia della vera passione non si placano e la voglia di cambiamento e rigenerazione diventa insostenibile. Ed è a questo punto critico della vita che Carmen scompare senza lasciare traccia…

3) Il terzo libro che vi consiglio è un classico italiano, Il Barone rampante, di Italo

Calvino. Con questo ci siamo incontrati molti anni fa, per questo non ricordo più né come né dove, vi consiglio l’edizione Oscar Mondadori, economica ma affidabile. Il protagonista Cosimo Piovasco di Rondò è un indomabile ribelle che a dodici anni sale su un albero per non ridiscenderne mai più. Calvino ha sviluppato questa immagine fino portarla alle estreme conseguenze: il protagonista trascorre l'intera vita sugli alberi, mantenendo tra sé e i suoi simili una invalicabile distanza. Lui sta sull’albero gli altri stanno sotto, possono salire e raggiungerlo solo coloro che lui ritiene degni, per gli altri esiste solo una incolmabile distanza. Eppure la sua vita è tutt'altro che monotona, anzi è piena di avventure, non è uno stilita, incontra, ama, combatte e vince.  Si legge nello strepitoso incipit:

 F
u il 15 di giugno del 1767 che Cosimo Piovasco di Rondò, mio fratello, sedette per l’ultima volta in mezzo a noi. Ricordo come fosse oggi. Eravamo nella sala da pranzo della nostra villa d’Ombrosa, le finestre inquadravano i folti rami del grande elce del parco. Era mezzogiorno, e la nostra famiglia per vecchia tradizione sedeva a tavola a quell’ora, nonostante fosse già invalsa tra i nobili la moda, venuta dalla poco mattiniera Corte di Francia, d’andare a desinare a metà del pomeriggio. Tirava vento dal mare, ricordo, e si muovevano le foglie. Cosimo disse:- Ho detto che non voglio e non voglio!- e respinse il piatto di lumache. Mai s’era vista disubbidienza più grave.

Si può vivere una vita avventurosa stando a debita distanza, muoversi da un mondo ad un altro attraversando mari di pagine e di inchiostro. Arrabbiarsi, prendersela, rattristarsi non cambierà la natura delle cose, nemmeno un buon libro cambierà le cose, ma almeno servirà a distrarci e a ricordarci che un libro ci permette di andare ovunque. 

Buona lettura.


mercoledì 11 novembre 2020

Parole e Quoziente d'Intelligenza (di Christophe Clavé)

Il Quoziente d’Intelligenza (QI) medio della popolazione mondiale è in continuo aumento (effetto Flynn). Questo almeno dal secondo dopoguerra fino alla fine degli anni ’90. Da allora il QI è invece in diminuzione...

È l’inversione dell’Effetto Flynn. La tesi è ancora discussa e molti studi sono in corso da anni senza riuscire a placare il dibattito. Sembra che il livello d’intelligenza misurato dai test diminuisca nei Paesi più sviluppati. Molte possono essere le cause di questo fenomeno. Una di queste potrebbe essere l'impoverimento del linguaggio. Diversi studi dimostrano infatti la diminuzione della conoscenza lessicale e l'impoverimento della lingua: non si tratta solo della riduzione del vocabolario utilizzato, ma anche delle sottigliezze linguistiche che permettono di elaborare e formulare un pensiero complesso. La graduale scomparsa dei tempi (congiuntivo, imperfetto, forme composte del futuro, participio passato) dà luogo a un pensiero quasi sempre al presente, limitato al momento: incapace di proiezioni nel tempo. La semplificazione dei tutorial, la scomparsa delle maiuscole e della punteggiatura sono esempi di “colpi mortali” alla precisione e alla varietà dell'espressione. Solo un esempio: eliminare la parola "signorina" (ormai desueta) non vuol dire solo rinunciare all'estetica di una parola, ma anche promuovere involontariamente l'idea che tra una bambina e una donna non ci siano fasi intermedie.

Meno parole e meno verbi coniugati implicano meno capacità di esprimere le emozioni e meno possibilità di elaborare un pensiero. Gli studi hanno dimostrato come parte della violenza nella sfera pubblica e privata derivi direttamente dall'incapacità di descrivere le proprie emozioni attraverso le parole. Senza parole per costruire un ragionamento, il pensiero complesso è reso impossibile. Più povero è il linguaggio, più il pensiero scompare. La storia è ricca di esempi e molti libri (Georges Orwell - 1984; Ray Bradbury - Fahrenheit 451) hanno raccontato come tutti i regimi totalitari hanno sempre ostacolato il pensiero, attraverso una riduzione del numero e del senso delle parole. Se non esistono pensieri, non esistono pensieri critici. E non c'è pensiero senza parole. Come si può costruire un pensiero ipotetico-deduttivo senza il condizionale? Come si può prendere in considerazione il futuro senza una coniugazione al futuro? Come è possibile catturare una temporalità, una successione di elementi nel tempo, siano essi passati o futuri, e la loro durata relativa, senza una lingua che distingue tra ciò che avrebbe potuto essere, ciò che è stato, ciò che è, ciò che potrebbe essere, e ciò che sarà dopo che ciò che sarebbe potuto accadere, è realmente accaduto? Cari genitori e insegnanti: facciamo parlare, leggere e scrivere i nostri figli, i nostri studenti. Insegnare e praticare la lingua nelle sue forme più diverse. Anche se sembra complicata. Soprattutto se è complicata. Perché in questo sforzo c'è la libertà. Coloro che affermano la necessità di semplificare l'ortografia, scontare la lingua dei suoi “difetti”, abolire i generi, i tempi, le sfumature, tutto ciò che crea complessità, sono i veri artefici dell’impoverimento della mente umana.

Non c'è libertà senza necessità. Non c’è bellezza senza il pensiero della bellezza.

Christophe Clavé

domenica 8 novembre 2020

A San Martino ogni mosto è vino

 


Il Santo – San Martino nasce in Pannonia (oggi in Ungheria), a Sabaria, da pagani. Viene istruito sulla dottrina cristiana ma non viene battezzato. Figlio di un ufficiale dell’esercito romano, si arruola a sua volta, giovanissimo, nella cavalleria imperiale, prestando poi servizio in Gallia. È in quest’epoca che si colloca l’episodio famosissimo di Martino a cavallo, che con la spada taglia in due il suo mantello militare, per difendere un mendicante dal freddo. Lasciato l’esercito nel 356, già battezzato forse ad Amiens, raggiunge a Poitiers il vescovo Ilario che lo ordina esorcista (un passo verso il sacerdozio). Dopo alcuni viaggi Martino torna in Gallia, dove viene ordinato prete da Ilario. Nel 361 fonda a Ligugé una comunità di asceti, che è considerata il primo monastero databile in Europa. Nel 371 viene eletto vescovo di Tours. Per qualche tempo, tuttavia, risiede nell’altro monastero da lui fondato a quattro chilometri dalla città, e chiamato Marmoutier. Si impegna a fondo per la cristianizzazione delle campagne. Muore a Candes nel 397.

La tradizione - La stagione autunnale ci porta ogni anno delle consuetudini che fanno parte di noi e della nostra terra. E’ il momento di conservare magliette di cotone, costumi da bagno e sandali per lasciare spazio, nel guardaroba, a maglioni di lana, sciarpe e cappotti. E’ il momento di accantonare motorini e biciclette per l’auto anche se dobbiamo percorrere poca strada. E’ il momento di raccogliere i frutti della vite. E’ il momento di vendemmiare.

In questa atmosfera in cui gli alberi lasciano cadere le foglie ingiallite, in cui le nuvole nascondono il sole e il paesaggio si prepara all’inverno, si trova nel grigiore un motivo per far festa. L’undici novembre, il giorno di San Martino, noi siamo soliti rendere omaggio al vino novello e utilizziamo questo pretesto per banchettare. Casteltermini conserva da tempo immemorabile questa usanza. Già un mese prima dell’evento, i ragazzi soprattutto cominciano a chiedersi “Che facciamo a San Martino?”. Qualunque cosa si organizzi l’importante è stare insieme, ritrovarsi intorno ad una tavola imbandita, mangiare ciò che la tradizione vuole e bere (‘Ncignari), si spera con moderazione, il vino novello. Immancabili la salsiccia, panuzzedda da intingere nel vino, oppure nella gustosissima variante ripieni di crema di ricotta, qualche  castagna du siminzaru e un po’ di frutta.

La cultura del vinoU vinu nuvu da noi si produce nel rispetto d’antiche tradizioni vitivinicole secondo un processo di vinificazione il cui risultato è un’armonia di profumi e di sapori. Prima della spremitura, grappoli scelti sono sistemati con accuratezza, successivamente, si procede alla spremitura. Il risultato è un vino forte, profumato, fruttato e di colore rosso brillante, che va bene con carni rosse, bianche, formaggi.

Ogni gesto ha una sua parte nel rituale circolare che porterà al nuovo vino. Ogni tappa è importante e ogni punto segna una linea di partenza e di arrivo. Noi partiremo dall’imbottigliamento cosiddetto all’antica. Approssimandosi la vendemmia, i pochi fortunati che hanno ancora qualche litro nella botte, la vuotano e imbottigliano il vino. In realtà il vino, per via delle temperature, tendeva a guastarsi e questa operazione di imbottigliamento è stata anticipata a marzo (moderno). Gli imbottigliatori di cui parlo non sono  quelli “nobili” che tappano con il sughero e si fanno stampare le etichette adesive. No, parlo degli enologi imbruttiti di casa nostra, quelli che imbottigliano rigorosamente nelle bottiglie di acqua Fiuggi con i tappi a corona. Di recente, nella scala del degrado che fa storcere il muso ai puristi, si è aggiunto l’uso delle bottiglie con chiusura meccanica “Jumper”, quelle nelle quali facevamo la Frizzina per capirci. 

Vuotate le botti si devono lavare. Pulire la botte subito dopo lo svuotamento è più semplice, in quanto il tasso di umidità assorbito dal legno è più alto. Un metodo naturale e tradizionale per effettuare questo passaggio è l’utilizzo di un mix cremoso a base di limone e bicarbonato, che permette di pulire ogni residuo dall’interno della botte. Si dovrà poi procedere ad un accurato risciacquo. Ai miei tempi l’acqua del lavaggio veniva buttata in strada, che si tingeva di rosso e odorava di vino per giorni. La pratica non era molto igienica ma promanava un certo fascino, contribuendo agli odori dell’autunno e a qualche spiacevole scivolone. Ormai quasi perduto c’è un altro passaggio: la 'nzurfarata della botte, con il suo rituale del fuoco. Procedimento usato per la sterilizzazione delle botti prima che vengano riempite con il mosto, questa preparazione è necessaria per l'eliminazione totale di batteri e germi che danno origine alle muffe. Si prendono delle “bacchette” di zolfo, si accendono  si tengono dentro la botte attraverso il buco del tappo, sul fondo della botte è stato messo del vino per evitare che lo zolfo acceso raggiunga il legno. Per concludere il procedimento si blocca la cordicella che tiene lo zolfo con il tappo e si chiude la botte. Lo zolfo continuerà a bruciare fino a quando non avrà consumato tutto l’ossigeno, il fumo saturerà la botte disinfettandola. In realtà i contenitori d'acciaio hanno semplificato di molto il processo, riducendo il numero dei travasi. 

A settembre si procede con la vendemmia, le botti, di legno, di resina o d'acciaio, preparate in precedenza sono pronte ad ospitare il mosto. Saltiamo i dettagli della vendemmia ed andiamo a San Martino, diamo per scontato, anche se non è così, che l’undici novembre ogni mosto è vino. Nel frattempo nella vigna le foglie si sono ingiallite e stanno tutte cadendo.  Quando le piante avranno perso completamente le foglie, tra dicembre, gennaio e febbraio, si procederà alla potatura. Passerà poco e da marzo a maggio avremo la fioritura delle viti. Potatura estiva, il tempo di legare la vigna a giugno e siamo quasi pronti per la nuova vendemmia. Vuotate le botti, imbottigliamento il vino residuo...

Per San Martino i papà, ma più spesso i nonni, sono soliti fare assaggiare ai bambini un goccino di vino, segnale questo che si può fare baldoria. Il vino rosso come affermava l’umanista Laguna, “riscalda i freddolosi, rianima gli esausti, nutre gli emaciati, risveglia gli ingegni sonnolenti, crea artisti e poeti, rallegra i malinconici, spiana la collera ai biliosi”. 

Molti poeti hanno dedicato i loro componimenti al periodo di San Martino, Pablo Neruda, Gabriele D’Annunzio, Giosue Carducci.

Ma facciamo attenzione!

“Quando il vino è nell’uomo, il senno è nel fiasco”.