domenica 29 dicembre 2019

2020: festività, ponti e vacanze a scuola




Le festività, i ponti e le vacanze previste dal calendario scolastico 2020: come variano le data da regione a regione
Il 2019 sta volgendo al termine e, complice la pausa scolastica per le festività natalizie, è utile ricordare il calendario 2020 delle scuole italiane per andare a scoprire quali saranno le prossime vacanze per gli studenti d’Italia.
Il calendario scolastico 2020 che troverete di seguito prende in esame le festività nazionali in cui le scuole resteranno chiuse in tutta Italia, le vacanze di Carnevale e Pasqua, i Ponti e l’ultimo giorno di scuola previsto dal calendario scolastico 2019/2020. Il primo giorno di vacanza estiva 2020, come ormai da tradizione, differisce da regione e regione, dividendo idealmente lo Stivale tra studenti più o meno “fortunati”.

Le festività nazionali 2020 in cui le scuole resteranno chiuse in tutta Italia:
– mercoledì 1 gennaio 2020 (Capodanno);
– lunedì 6 gennaio 2020 (Epifania);
– domenica 12 aprile 2020 (Pasqua);
– lunedì 13 aprile 2020 (Pasquetta);
– sabato 25 aprile 2020 (Festa della Liberazione);
– venerdì 1 maggio 2020 (Festa del Lavoro);
– martedì 2 giugno 2020 (Festa nazionale della Repubblica).
Vacanze di Carnevale, il calendario delle scuole:
– Abruzzo: 25 febbraio 2020
– Basilicata: 24 e 25 febbraio 2020
– Bolzano: dal 22 al 29 febbraio 2020
– Campania: 24 e 25 febbraio 2020
– Friuli Venezia Giulia: scuole chiuse dal 24 al 26 febbraio 2020
– Piemonte: dal 24 al 26 febbraio 2020
– Trentino-Alto Adige: dal 22 al 25 febbraio 2020
– Valle d’Aosta: dal 24 al 26 febbraio 2020
– Veneto: dal 24 al 26 febbraio 2020

Vacanze di Pasqua 2020, il calendario delle scuole:
– Abruzzo: dal 9 al 14 aprile
– Basilicata: dal 9 al 14 aprile
– Bolzano: dal 9 al 14 aprile
– Calabria: da giovedì 9 aprile a martedì 14 aprile 2020 (compresi)
– Campania: da giovedì 9 aprile a martedì 14 aprile 2020 (compresi)
– Emilia Romagna: dal 9 al 14 aprile
– Friuli Venezia Giulia: da giovedì 9 aprile a martedì 14 aprile 2020 (compresi)
– Lazio: 9-14 aprile
– Liguria: da giovedì 9 aprile a martedì 14 aprile 2020 (compresi)
– Lombardia: 9-14 aprile
– Marche: dal 9 al 14 aprile
– Molise: dal 9 al 14 aprile
– Piemonte: da giovedì 9 aprile a martedì 14 aprile 2020 (compresi)
– Puglia: dal 9 al 14 aprile
– Sardegna: dal 9 al 14 aprile
– Sicilia: dal 9 al 14 aprile
– Toscana: da giovedì 9 aprile a martedì 14 aprile 2020 (compresi)
– Trento: da giovedì 9 a martedì 14 aprile 2020
– Umbria: da giovedì 9 a martedì 14 aprile 2020
– Valle d’Aosta: 9-14 aprile
– Veneto: dal 9 al 14 aprile
Ponti 2020, il calendario delle scuole:
– Ponte 2 maggio: scuole chiuse in Liguria, Piemonte, Friuli Venezia Giulia, Umbria, Veneto, Basilicata, Campania, Calabria, Valle d’Aosta, Molise, Abruzzo, Puglia, Trentino-Alto Adige.
– Ponte 1° giugno: scuole chiuse in Liguria, Piemonte, Valle d’Aosta, Friuli Venezia Giulia, Veneto, Basilicata, Umbria, Calabria, Campania, Bolzano, Puglia, Trentino-Alto Adige.

Ultimo giorno di scuola 2020, il calendario regione per regione:
– Abruzzo: 8 giugno
– Basilicata: 10 giugno
– Bolzano: 16 giugno
– Calabria: 9 giugno
– Campania: 10 giugno
– Emilia Romagna: 6 giugno
– Friuli Venezia Giulia: mercoledì 10 giugno (30 giugno per le scuole dell’infanzia)
– Lazio: 8 giugno
– Liguria: mercoledì 10 giugno (30 giugno per le scuole dell’infanzia)
– Lombardia: 8 giugno
– Marche: 6 giugno
– Molise: 6 giugno
– Piemonte: mercoledì 10 giugno (30 giugno per le scuole dell’infanzia)
– Sardegna: 6 giugno
– Sicilia: 6 giugno per chi frequenta le scuole 6/7 e 10 giugno per chi frequenta 5/7
– Toscana: mercoledì 10 giugno (30 giugno per le scuole dell’infanzia)
– Trentino-Alto Adige: mercoledì 10 giugno (30 giugno per le scuole dell’infanzia)
– Umbria: martedì 9 giugno (30 giugno per le scuole dell’infanzia)
– Valle d’Aosta: 12 giugno
– Veneto: 6 giugno.

giovedì 26 dicembre 2019

L'Albero dei desideri di Casteltermini



Da un po’ di giorni si trova in piazza Duomo, non riesco ancora a decidermi se lo ritengo bello o brutto. Di certo sono convinto che è importante, lo è per tutta la nostra Comunità, per la sua identità della quale rappresenta il risultato simbolico di un tragitto sinuoso e anomalo che ha unito, in piccole o grandi occasioni, un gruppo di caparbie donne.
Ogni “mattonella” di questo albero è passata attraverso l’angoscia o la felicità, la gioia o la tristezza delle singole signore che l’hanno pazientemente realizzata. Ha sostato nelle loro case: testimone del vissuto di ognuna, per poi allargarsi e diventare la storia di un paese, Casteltermini, alla disperata ricerca di se stesso, nel ricordo di un passato glorioso e ormai lontano, forse perso per sempre. “L’Albero dei Desideri” ha allontanato, finalmente, la nostra Comunità dal teatrino social di “chi vince e chi perde” tramutandosi in un grande mosaico, che nei suoi particolari ci parla di un popolo multiforme ed eterogeneo, di donne emigrate con il corpo ma presenti con il cuore. L’albero è diventato così una metafora capace di dare l’idea di come 2000 e più “mattonelle” vengano con pazienza messe una affianco all’altra nel tentativo di far emergere una figura, un’idea, una storia appunto, la nostra.
Ogni mattonella rappresenta uno di noi, la nostra inutile solitudine che si oppone all’albero, simbolo di unità e compattezza. Dobbiamo tornare ad essere Comunità, questa vicenda ci ha indicato il cammino per ritrovare la nostra identità, per ritornare ad essere un popolo. E non è un caso che ad indicarci la strada siano state le donne della Comunità


mercoledì 11 dicembre 2019

Buon Compleanno Casteltermini... i numeri ci condannano



Fatevi un giro per le strade di Casteltermini, provate a contare i “Si Vende” che campeggiano nei balconi; poi osservate le strade vuote e maltenute; la piazza, una volta simbolo della vitalità del paese, oggi malinconicamente deserta e triste. Volete  sapere dove sono finiti tutti? Tra poco lo spiegherò, o almeno proverò a spiegarlo... girando per Casteltermini mi vengono in mente le “Anime morte” di Gogol, mi viene in mente una sorta di girone infernale nel quale le macchine, strombazzanti e fastidiose, si moltiplicano e gli abitanti si sottraggono, mi vengono in testa i post da bar “Social” su quanto “quelli” ci stiano rubando lavoro e identità. Mi viene in testa un piano Kalergi[1] in salsa castelterminese, infarcito della solita presunzione, che da quando ci sono i social è diventata parossistica, che, abbinata all’ignoranza, fa la fortuna di certi politici in tutta Italia.



Chi ci sta invadendo? Ricordo la reazione isterica di qualche "fascistrollo" castelterminese all’apertura dei primi Sprar[2], eppure non c’è mai stato nessun problema serio con questi ragazzini venuti dal mare. Portavano lavoro a qualche famiglia, portavano qualche soldo per gli affitti, portavano qualche soldo di indotto. Ci mettevano a contatto con la Stella Polare della nostra democrazia, la Costituzione, che così recita:  Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge. Abbiamo paura di questi ragazzi arrivati dal Continente Nero su instabili barconi, ma non ci preoccupiamo dei ragazzi e delle ragazze di Casteltermini che con un regolarissimo biglietto Ryanair hanno lasciato vuota questa terra. Non c’è nessuna invasione fidatevi, semmai c’è un altro problema, si chiama desertificazione. L’entroterra siciliano si sta svuotando e Casteltermini è il paradigma di questo svuotamento. Non ci credete? Osserviamo i numeri.
Ho scelto di fare partire questa riflessione dal 1984 perché per me la data è molto evocativa, è l’anno nel quale è ambientato i capolavoro di George Orwel “1984” per l’appunto. Ma anche per fare comprendere come le cose andavano in maniera diversa prima degli anni ’90, in particolare prima del 1994.

Quelli che potete osservare in questa parte sono i dati del saldo naturale a Casteltermini. Il saldo naturale è la differenza tra il numero dei nati vivi e quello dei morti relativi ad un determinato periodo di tempo  su un determinato territorio, nel nostro caso Casteltermini, però voglio ribadire che Casteltermini può essere considerato paradigmatico di tutto l’entroterra siciliano. Dal 1984 al 1994 il saldo naturale è positivo ma in costante decremento. I nati superano i morti e se facessimo riferimento solo a questo dato possiamo dire che il numero degli abitanti di Casteltermini aumenta. Nel 1994, con la sola eccezione del 1997 (+18), il saldo naturale comincia ad essere costantemente negativo: i morti superano i nati di 488 unità.

Sulla base di questo dato la  popolazione è in costante calo, non c’è nessuna sostituzione né tanto meno nessuna invasione, c’è solo la desertificazione. Sempre meno abitanti calpestano il suolo castelteminese, la popolazione è sempre più vecchia e povera. Il lavoro manca perché mancano le persone e di conseguenza manca la domanda... con buona pace di Kalergi e dei suoi interessati adepti.
Veniamo al saldo migratorio, cioè alla differenza tra il numero di immigrati e quello di emigrati riferito ad una determinata città, zona o paese per un certo periodo di tempo, nel nostro caso ancora una volta Casteltermini.
Fino al 1988 il saldo è positivo. In poche parole venivano ad abitare a Casteltermini più persone di quante ne partivano. Nel 1989 comincia l’esodo anche se dal 2011 a 2015 c’è un dato in controtendenza. Ricordate il saldo naturale del 1994? Era l’anno del primo segno meno (-25). Vediamo di cercare una chiave di lettura. Nel 1994 nascono 17 bambini in meno dell’anno prima. Il saldo migratorio è di -155, si presuppone che chi emigra da Casteltermini è giovane e in età fertile. Il periodo dal 1994 a 1998 segna un saldo negativo di circa 600 persone, spesso giovani istruiti e in età fertile, a volte intere famiglie. Questo periodo con la Dott.ssa Imperatore e con l’operatore Renda dell’ufficio Anagrafe di Casteltermini, che ringrazio per la gentilezza, la competenza e la pazienza, lo abbiamo battezzato "periodo Carpi-Parma”. In quel periodo le mete più ambite sono le città emiliane. La leggenda racconta di bar pieni di Castelterminesi e di una banda musicale formata quasi esclusivamente da castelterminesi.
Tranne il periodo dal 2011 al 2015, che segna qualche migrazione di ritorno e qualche arrivo dall’Est europeo, la popolazione di Casteltermini è in continuo calo e vede i suoi migliori giovani andarsene, spesso seguiti dalle famiglie. A questi vanno aggiunti gli universitari che, con il trucchetto del numero chiuso, lasciano la Sicilia per andare ad arricchire le città del Nord. Il saldo migratorio è negativo -732. I giovani partono e nessuno li sostituisce, paese si svuota e basta. Le case vuote, prive della necessaria manutenzione, diventano fatiscenti e cadono, i loro nuovi padroni sono i topi.

Andiamo al saldo demografico che calcoleremo sommando la differenza tra i nati vivi e i morti al saldo tra il numero degli immigrati e quello degli emigrati. Con le premesse che ho espresso fin qui non ci sono dubbi sul fatto che sarà negativo.
A questo punto mancano all’appello 1210 Castelterminesi... ma, non ci crederete, il dato è troppo ottimistico. Chi si trasferisce nella maggior parte dei casi conserva la residenza nel paese di origine. Il dato del saggio migratorio andrebbe triplicato. All’appello mancano circa 3000 persone. Se i miei dati sono giusti Casteltermini si attesterebbe intorno ai 6000 abitanti. Siamo tornati allo stesso numero di abitanti del 1700, siamo circa 11.000 in meno di cento anni fa, momento di massima espansione demografica, quando eravamo  17.116. Chi ci sta invadendo? Il deserto!
Casteltermini si sta svuotando sempre di più dei suoi giovani, e questa tendenza non prospetta altro che una progressiva desertificazione del nostro Comune.
Il dato di Casteltermini si va ad incastonare perfettamente ai dati della Provincia (ex?), infatti dal 2012 al 2018 la provincia di Agrigento ha perso oltre ottomila residenti. Il dato, registrato da Istat, vede scendere la popolazione da 446.520 a 438.276 abitanti. L’unica eccezione? Agrigento città che è cresciuta dai 58.238 abitanti del 2012 ai 59.329 dello scorso anno.
Un piccolo "boom" demografico che però non è frutto delle nascite (il saldo naturale è di -232, il più alto tra quelli riscontrabili sul territorio) ma che nasce da una parziale migrazione di ritorno e, soprattutto, dalla crescita del numero di cittadini extracomunitari: nel 2012 gli stranieri in città erano 861 e quelli in provincia 9396. Oggi, secondo Istat, sono oltre 1718 nel capoluogo e 15.292 in tutto il territorio dell’Agrigentino. (Fonte agrigentonotizie.it)
Preoccupante è il fatto che tutto il Mezzogiorno d’Italia soffra gli stessi problemi. Si legge in un articolo di  Alice Oliveri su  The vision: “Le statistiche Eurostat del 2017 danno un’idea più palpabile di questa situazione: la Calabria ha un tasso di disoccupazione giovanile del 55,6%, la Campania del 54,7%, la Sicilia – in calo rispetto all’anno precedente – del 52,9%. Per capirci meglio, il Nord Est ha un tasso del 20,6%. E così si alimenta quel circolo vizioso per cui meno si lavora, più università si trovano costrette a ridimensionare i costi, più giovani scappano via.
I poli decentrati in Sicilia, ad esempio, se in un primo momento sembravano poter dare nuova vita a zone più esposte alla decrescita, adesso cominciano a chiudere per mancanza di fondi e costi troppi elevati, come il caso di Beni culturali e Archeologia ad Agrigento, distaccamento dell’Università di Palermo. Quale posto migliore per studiare questo genere di materia se non in uno dei siti archeologici più importanti d’Europa? E invece, niente da fare”.
Ritornando a Casteltermini: ci sono intere zone del paese che sembrano uscire da un bombardamento; attività commerciali storiche che hanno chiuso i battenti; sempre meno bambini nascono e frequentano le nostre scuole. Questo accade in tutto il Sud, mentre la popolazione mondiale è in continua crescita il nostro Meridione si desertifica, le migliori forze si spostano al nord o all'estero... e noi ci difendiamo nella nostra fortezza, come nel delirio catatonico del Deserto dei tartari aspettando l'invasione che non c'è...
Buon compleanno Casteltermini.

Mangiare u zitu... per non rimanere zitella! La particolare tradizione di Casteltermini


Stasera mangerete ‘u zitu? sappiate allora che la leggenda vuole che l’origine di questo formato di pasta sia legata alle storie d’amore. Dalle nostre parti il termine zitu vuol dire ragazzo ancora non sposato ma fidanzato. Con ziti si indicano fidanzati, nella doppia variante di ziti ammucciuni, fidanzati ancora non ufficialmente, cioè senza l’intervento delle famiglie; ziti affacciu cioè fidanzati ufficialmente, con il benestare delle famiglie. La ragazza che ha tutto il potenziale per diventare zita ma che ancora non raggiunge questa condizione viene detta zitella. Se il matrimonio non si verificherà entro il giusto lasso di tempo, la potenziale zita passerà da zitella a schetta vecchia! Gli ziti anticamente si chiamavano zite perché venivano preparati in occasione dei pranzi di nozze e sancivano l’uscita delle donne dallo “scomodo” ruolo di zitelle.
U zitu è anche detto, sempre dalle nostre parti, maccarruni, e a questo nome è collegata una particolare tradizione castelterminese così descritta da Gianfranco Lo Bue nel suo “Le immagini della memoria”.
Anticamente iniziava in questo modo. La notte seguente al martedì di carnevale, subito dopo la mezzanotte, da un balcone di una abitazione della via Cadorna (rione Gesù e Maria), si affacciava un vecchio che suonando una campanella gridava: «Muri, muri». Facendo riferimento alla fine del carnevale.
L'indomani, mercoledì, si faceva il funerale al carnevale che veniva simboleggiato da una persona chiamata 'u Maccarruni. Questa persona, morta per soffocamento causatogli da uno Zitu andatogli di traverso, durante l'ingordigia nel mangiare questo caratteristico piatto di carnevale che, nella ricetta tradizionale, prevedeva i maccheroni fatti in casa conditi con ragù, cotenna di maiale e pepe.
Il cerimoniale era il seguente ‘u Maccarruni, rappresentato dall’uomo, che doveva fingersi morto, veniva sdraiato su di un carro, simile a quello funebre, e portato in giro per le vie del paese. Lo accompagnava un corteo formato dai familiari, nei quali si distinguevano delle donne, con lunghi veli neri, che piangevano e si disperavano per la scomparsa dell'estinto. Il corteo si concludeva in Piazza Duomo, dove 'u Maccarruni prodigiosamente risorgeva e si univa agli altri in una sarabanda gioiosa.
Questa tradizione era in qualche modo legata alla famiglia Varsalona, abitante appunto in via Diaz che è la continuazione di via Cadorna.

L’industrializzazione della pasta ci ha portati a dimenticare come veniva fatta la pasta una volta... mi riferisco al Maccarruni, pasta fatta in casa ottenuta con acqua e farina poi rivoltata e premuta per una buona mezzora con entrambe  le palme delle mani, ‘mpastata per capirci. Una volta impastata la pasta si lasciava riposare avvolta in uno strofinaccio. Dopo poco più di un’ora veniva spianata e filata, dalla filatura si ottenevano così i curdeddi che venivano messe in fila e successivamente cavate. È venuto fuori così il terzo nome cavatuni! Frutto dell’azione del “cavare” (rendere cavo), Il verbo cavari, in dialetto siciliano, indica dunque l’attorcigliare e spianare le curdeddi attorno a un ferro da maglia o a una canna sottile, si ottenevano cosi maccheroni con l’interno cavo, che è essenziale per l’assorbimento del sugo. Una volta ‘cavati’ i maccarruna venivano posti ad asciugare sopra una tovaglia oppure appinnuti (appesi ad asciugare)  prima di essere calati nell’acqua bollente per la cottura che deve avvenire, per non perdere la freschezza, massimo 24 ore dopo.
Le nostre nonne riuscivano a cavare tutti i maccheroni della stessa dimensione o quasi ma, talvolta, qualcuno può venire più curtu e malu cavatu si dice anche di persona bassa di statura e di cattiva indole. Un altro difetto grave del maccarruni è quello di venire senza buco: maccarruni senza pirtusu, appunto ‘senza buco’ (dal franc. pertuis, da cui derivano i verbi mpirtusari e spirtusari).
Per quel che riguarda il condimento mi affido alle mani esperte della mia amica Antonella Scarnà e al suo libro “Sapori e tradizioni di un tempo dimenticato”:
“Sembra quasi che il motto del Carnevale sia di mangiare a crepapelle, prima del periodo della quaresima. Infatti la tradizione vuole che nel nostro Paese, davvero si mangi fino a scoppiare. Iniziamo con un bel sugo di carne; ma attenzione! il nostro non è un sugo di carne qualsiasi. Si tratta di un elaborato sugo, che viene preparato fin dalle prime ore del mattino; è il cosi detto SUCU LURDU. Questa gustosissima pietanza viene preparata utilizzando diversi tipi di carne a pezzo, (vitello, manzo, agnello, salsiccia, cotenna e aggiungendo, a volte, anche i piedi di maiale). La carne viene rosolata con olio d'oliva e aromi prima di immergerla nel sugo.
L’etimologia della parola è controversa, potrebbe derivare dall’aggettivo greco makarios, beato! Dalla radice medesima pare derivino il latino medievale  maccum e il nostro maccu (di favi). Ammaccare è sinonimo di pressare e impastare, in siciliano ammaccari si riferisce anche ai maccheroni che si fanno spianando l’impasto, che altro non è che ammaccare la pasta... buona cena!

Quando a Casteltermini si faceva la "vecchia"

La vecchia

Quando ero piccolo ero un bambino camurrusu. Un giorno, venuto in possesso di uno specchietto, ho cominciato fare riflettere i raggi del sole e inclinandolo ho proiettato il cerchio di luce nel muro di fronte, facendolo muovere vorticosamente. In questo movimento mi sono permesso un passaggio sopra mia nonna Marietta, che si è messa ad urlare: «Non fare la vecchia! Non fare la vecchia!». In un primo tempo non ho afferrato, poi ho capito che la vecchia era proiettare il raggio riflesso addosso ad una persona, ancor di più sugli occhi dove dà più fastidio.

Le altre vecchie

Di recente ho provato a capire perché mia nonna, ahimè più di quaranta anni fa, diceva così. In molte regioni il significato di fare la vecchia rimanda a una moltitudine di gesti riconducibili tutti quanti a un'azione volta ad “infastidire” qualcuno, cioè fargli uno scherzo, più o meno bonariamente. Dare fastidio proprio come quanto il riflesso dello specchio viene fatto balenare sugli occhi. In Piemonte fare la vecchia indica, o forse sarebbe meglio dire indicava, il dare una ginocchiata sulla coscia di qualcuno, è una fattispecie discutibile di scherzo, quando uno meno se lo aspettava, gli si affibbiava una ginocchiata sulla coscia. «Perché zoppichi?» Risposta:«Mi hanno fatto la vecchia!». Quindi fare la vecchia ha in molte regioni un significato generale: dare fastidio; uno particolare dalle nostre parti: proiettare il raggio riflesso sugli occhi di una persona, cosa davvero fastidiosa.

La vecchia, lo specchio e la superstizione

Mia nonna Marietta dava però alla “vecchia” anche una connotazione superstiziosa, «non fare la vecchia perché porta male». Di questo secondo termine della questione poco si trova, se non di carattere generale legato alle credenze e superstizioni inerenti allo specchio. Anticamente per esempio si credeva che esso fosse in grado di catturare l’anima della persona che vi rifletteva la propria immagine. Collegato a questa credenza è il pensare che romperlo porti sette anni di disgrazie. È come se si istituisse una correlazione tra l’immagine della persona che va in frantumi e il male che può colpire la persona stessa. Per evitare di incorrere nella sfortuna in molte regioni si è soliti gettare in mare o in un fiume i frantumi dello specchio, attribuendo all’acqua un potere di purificazione dal male. Da ricordare che è usanza popolare quella di coprire o capovolgere gli specchi che si trovano nella casa di una persona morta. Questo perché si ritiene che l’anima del defunto possa rimanere intrappolata e in questo modo non può passare nella dimensione ultraterrena. Niente a che vedere con il nostro riflesso e la nostra “vecchia”. Il fatto invece che tale sfortuna debba durare sette anni risalirebbe agli Antichi Romani, che erano convinti che anima e corpo si rigenerassero completamente ogni sette anni, quindi ogni eventuale rottura (dell'anima e dello specchio) prima di tale scadenza avrebbe significato dover convivere col proprio “karma negativo” fino alla nuova rinascita.
Cosa c'entri il riflesso di uno specchio con la vecchia rimane un mistero...

Caro Gesù... fidati di un agnostico


Caro Gesù... fidati di un agnostico
Ma tu sei ateo? no, non sono ateo... sono agnostico. Agnostico? Sì agnostico...
Riguardo a Dio (per non offendere nessuno lo scrivo maiuscolo) vivo una condizione di agnosticismo, mi astengo cioè dal prendere una posizione, o dal rispondere alle domande, in merito all’esistenza di Dio. Lo faccio per colpa della mia ignoranza, che mi porta all’impossibilità di pronunciarmi su un mistero tanto grande. Ma su Gesù qualcosa posso dirla, posso dire parole più chiare... le sue! Non sono in grado di negare il fascino che esercitano su di me, agnostico, le parole del Nazareno, per esempio: «Come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13,34).
Un cristiano non dovrebbe dimenticare che il Cristo è morto in croce a causa dei peccati del mondo. E io non riesco a immaginare il Cristo dolente, quello che mi è stato raccontato al catechismo quando ero piccolo, sorridere al cospetto della morte e soprattutto della sofferenza di uomini, donne e bambini, forse fratelli suonerebbe meglio... che vengono da un altro continente a morire nel nostro mare Mediterraneo. Io quel Cristo lo immagino sgomento davanti al viso di chi in questi anni li ha fatti morire ostentando indifferenza, pragmatismo... avidità. Non posso credere alla insulsaggine di chi dice che non fuggono da nessuna guerra, di chi dice che non hanno fame e che stanno bene, di chi pensa che mettono i loro figli su barconi instabili, che immancabilmente affondano, per venire a fare la “pacchia” in Italia. Non posso credere, anzi lo credo benissimo, che le persone che dicono queste meschinità sono le stesse che la domenica si battono il petto in chiesa, che, come dice Battiato, si illuminano d’immenso mostrando un poco la lingua al prete che dà l'ostia. Povero Cristo, non è bastata la Sua morte in mezzo a due ladroni, il tabernacolo che Lo contiene oggi è circondato da infelice gente cattiva.


Non riesco a immaginare neanche un Gesù indifferente, che con una moneta stabilisca, facendo testa o croce (sob!), chi è prossimo e chi no, un Cristo non interessato alla morte e alla sofferenza di questi suoi fratelli.
Non riesco a capacitarmi che stiamo parlando dello stesso “Figlio dell’uomo” che ha detto: «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me» (Mt 25,40). Sono agnostico, l’ho già detto, forse per questo credo che il Cristo nella frase che ho citato si riferisse al piccolo Aylan. Lo avete già dimenticato? Aylan Kurdi, il piccolo fratello che giaceva senza vita a faccia in giù, tra la schiuma delle onde, nella sua t-shirt rossa e nei suoi pantaloncini blu scuro, piegati all’altezza della vita. Sì, quello della foto.
Non posso neanche credere che Gesù non ha dato nemmeno una sbirciata alla pagella del migrante di 14 anni annegato nel Mediterraneo pochi giorni fa... «la pagella era ripiegata con cura e cucita nella giacca: una pagella, con i voti delle materie scritte in arabo e francese. Quella scheda, conservata con amore e orgoglio, forse anche nella speranza che dimostrasse le sue buone intenzioni».
Caro Gesù... fidati di un agnostico... sei circondato da gente cattiva, da falsi cristiani, da malvagi lupi che si fingono agnelli, da gente che per il potere ucciderebbe la madre... che ti venderebbe per 30 denari... ma che te lo dico a fare...


“Quando il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli, si siederà sul trono della sua gloria. E saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me.  Poi dirà a quelli alla sua sinistra: Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli. Perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere; ero forestiero e non mi avete ospitato, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato. Anch'essi allora risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo visto affamato o assetato o forestiero o nudo o malato o in carcere e non ti abbiamo assistito? Ma egli risponderà: In verità vi dico: ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l'avete fatto a me. E se ne andranno, questi al supplizio eterno, e i giusti alla vita eterna».

Quando il Mediterraneo parlava Sabir


La prima volta che mi sono imbattuto nel termine Sabir è stato leggendo “Blues di mezz’autunno” di Santo Piazzese (Sellerio editore Palermo), a pagina 67 del romanzo si legge: “[...] Quando il nome in siciliano non gli affiorava, ricorreva all’arabo o al francese, e qualche volta a un idioma strano, che non riuscivo a identificare, e che oggi penso potesse persino corrispondere a una qualche sopravvivenza del Sabir, la lingua franca parlata in tutto il Mediterraneo, ed estinta da più di un secolo: un misto di lingue a dialetti delle coste, da nord a sud, da est a ovest”.
È esistita dunque nel Mediterraneo, e in particolare sulle nostre coste e nei nostri porti siciliani, per almeno tre secoli, dal XV al XVIII, una lingua grazie alla quale  Siciliani, Arabi, Turchi potevano parlare fra loro senza bisogno di traduttori. Usavano appunto il Sabir, un pidgin[1] nato per agevolare le relazioni commerciali ma che diventò mezzo di comunicazione di tutti i naviganti, che insistevano nel bacino del Mediterraneo, e per molti abitanti delle coste.
Guardando al Mare Nostrum di oggi, quello che per volere di Salvini e dei suoi sodali ha visto trasformare la sua natura da ponte tra due mondi a “cortina di ferro”, si stenta a credere nell’esistenza di una koinè linguistica come il Sabir parlato in tutti i porti del Mediterraneo, un misto di siciliano, veneto, francese, spagnolo ed arabo, indispensabile per chiunque volesse agire sul mare o con il mare.

L’origine del termine Sabir non è chiara, si pensa possa trattarsi di una storpiatura del termine spagnolo saber traducibile con “sapere”.  È facile pensare che la natura di questo “sapere” non facesse riferimento al piano ordinario dell’esperienza, che avesse una  sorta di aura iniziatica, determinata dalla difficoltà che comportava conseguirne la padronanza. Era il mare a selezionare gli iniziati e a stabilire gradi progressivi di conoscenza, creando continuità e complicità in tutti i popoli del Mediterraneo.
Un aspetto importante era quello religioso. Infatti, parlare correttamente veneto o siciliano, cioè lingue dei cristiani, era forse considerato in qualche modo disdicevole per un musulmano. Lo stesso dicasi il contrario: parlare l’arabo, lingua dei musulmani, per i cristiani. In realtà non risulta che vi sia mai stata una proibizione esplicita in questo senso. La lingua sabir però, essendo soprannazionale, di fatto si sganciava dalle religioni proprie dei territori, nei confronti della lingua franca non vi era quindi nessuna interdizione. Insomma le due religioni principali convivevano pacificamente tanto che, leggiamo nel numero di Agosto della rivista “Gattopardo”, il santuario della Madonna di Porto Salvo a Lampedusa conserva la memoria di un uomo, Andrea, diventato leggendario perché accoglieva cristiani e musulmani e praticava il doppio culto, croce e mezzaluna. Una storia di speranza e di pace, che di questi tempi dovrebbe servire da esempio.
Davanti all’immagine della Madonna di Lampedusa, bruciava sempre una lucerna. Un eremita, probabilmente si chiamava Andrea, la alimentava e la leggenda vuole che pregasse in  Sabir. Tutti adoravano la Madonnina, fossero cristiani o saraceni: perché anche nell’Islam, la madre del profeta Gesù, era riconosciuta come Maria. Simbolo di convivenza pacifica.

Il Sabir era dunque una lingua di pace, utile a farsi comprendere e diffusa in tutto il Mediterraneo e anche se non si legava a nessuna religione in particolare, ho trovato e vi voglio condividere...
Padri di noi, ki star in syelo, noi voliri ki nomi di ti star saluti. Noi volir ki il paisi di ti star kon noi, i ki ti lasar ki tuto il populo fazer volo di ti na tera, syemi syemi ki nel syelo. Dar noi sempri pani di noi di cada jorno, i skuzar per noi li kulpa di noi, syemi syemi ki noi skuzar kwesto populo ki fazer kulpa a noi. Non lasar noi tenir katibo pensyeri, ma tradir per noi di malu. Amen
[1]Un pidgin (in inglese: /'pɪdʤɪn/) è un idioma derivante dalla mescolanza di lingue di popolazioni differenti, venute a contatto a seguito di migrazioni, colonizzazioni, relazioni commerciali.

Pani Travagliatu


Fino a non molto tempo fa, nella cultura dei contadini e dei minatori castelterminesi, il vero uomo era colui che “si scuttava ‘u pani” ovvero che mangiava “pani travagliatu”, ottenuto, cioè, con il sudore della propria fronte. Altrimenti si era considerati “pani persu”, “manciapani a tradimentu”, la peggiore categoria dei “manciapani a tradimentu” era poi quella dei “mantenuti”.
I tre epiteti, simili per alcuni versi, si differenziano per alcuni aspetti:
“pane perso” era colui che non riusciva a lavorare, vuoi perché poco dotato, vuoi perché malaticcio, si vergognava della sua involontaria inattività e cercava di nasconderla.
 “mangiapane a tradimento” era il fannullone, il perdigiorno che viveva a spese degli altri, questi era solito ostentare la propria condizione privilegiata.
“mantenutu” era quello che aveva una relazione con una donna, spesso di facili costumi o molto più anziana di lui, che provvedeva al suo mantenimento e alle sue necessità finanziarie.

Non si poteva quindi essere uomo stimato se non ci si guadagnava il pane.

Nella nostra società la penosità del lavoro dei campi era vissuta con difficoltà dai contadini, che però ringraziavano il cielo di non essere finiti in miniera, oh mammuzza mia nun mi mannari a la pirrera... recitava un triste canto.
A rincuorare contadini e minatori era la consapevolezza che «li peni pi lu pani nun su peni, li veri peni su senza pani». Le pene per procurarsi il pane erano, insomma, un male minore rispetto a quelle della mancanza di pane. Pene necessarie per le quali bisognava ringraziare Dio.
Il pane insomma doveva essere “pani travagliatu”, ogni forma di pane mangiata senza lavoro veniva vista come la negazione dell’essere uomo; il pane sganciato dal lavoro faceva dell’uomo un essere improduttivo, un povero vero.

Bisogna però sottolineare come il lavoro agricolo e quello delle miniere non aveva una giusta remunerazione ed era pesante ai limiti della sopportabilità; braccianti e zolfatai venivano considerati, insieme con il loro lavoro, come inferiori, dando per questo vita a duri movimenti di protesta; infine la lentezza del miglioramento delle condizioni di lavoro spesso esasperava i lavoratori. Eppure questa condizione di dolore e sfruttamento era considerata preferibile a quella di mangiare un pane “non travagliatu”.
La condizione dei minatori era poi particolarmente crudele e paradossale, per poter vivere e far vivere le proprie famiglie erano costretti a seppellirsi vivi. Capita spesso che i figli di minatori parlino del “pane travagliatu” dei loro padri, in una accezione ancora più interessante: i minatori di Casteltermini erano infatti soliti risparmiare un pezzetto di pane o di formaggio, per darlo ai propri figli al ritorno da lavoro. Se chiedete a questi figli, ormai adulti, vi diranno che non c’è cosa al mondo più buona di quel pane che odorava di zolfo, non c’è cosa più buona di quel “pani travagliatu” dei loro genitori.

Niccolò Cacciatore, l’uomo delle stelle...



Durante i moti del 20 e 21, quelli che progettavano di portare l’insurrezione contro tutti i regimi assolutisti e che cominciarono in Spagna, diffondendosi poi in diversi altri paesi europei, tra questi quelli italiani, fino ad arrivare a Palermo. Nella deposta capitale del Regno di Sicilia il castelterminese Niccolò Cacciatore, Direttore del Reale Osservatorio Astronomico di Palermo, attendeva alle sue cose con un occhio alle carte e uno alle stelle, ma con le due orecchie tese ad ascoltare il ribollire della rivolta all’esterno. Lo scienziato era del tutto ignaro di quanto di terribile gli stava per accadere.
Moti del 1820-1821 – Tutto ebbe inizio a Cadice, in Spagna, il primo Gennaio del 1820 quando alcuni ufficiali dell’esercito si rifiutarono di fare rotta verso le Americhe dove, con i loro eserciti, avrebbero dovuto impedire la nascita dei movimenti indipendentisti che si andavano formando. La rivolta si diffuse rapidamente, anche perché, come sostiene Rosario Villari nel suo Mille anni di Storia,  “I movimenti rivoluzionari europei del 1820-1821 furono preparati e preceduti da una intensa attività cospirativa svolta principalmente dalla Carboneria nei singoli paesi e attraverso tentativi di coordinamento internazionale delle attività e delle iniziative.
[...] Del resto la Carboneria aveva avuto fin dall’origine una impronta internazionale. Derivata probabilmente dalla Massoneria, era stata importata dalla Francia in Italia meridionale (in particolare a Napoli)  nel periodo napoleonico da ufficiali bonapartisti e da qui, dopo il 1815, si era diffusa in Italia del Nord e negli altri paesi mediterranei”.
Nel napoletano dunque soffiavano venti di rivolta, che si intensificarono, fino a diventare tumulto, quando a Nola, nella notte fra il 1° e il 2 luglio, i tenenti Morelli e Silvati presero il comando di un reggimento di Cavalleria costituito da 145 uomini ai quali si unirono altri rivoltosi al comando dell'abate Menichini. Il gruppo sempre più nutrito di rivoltosi prese la strada per Avellino, dove Morelli proclamò la Costituzione di Spagna in nome del popolo e alla presenza del vescovo. Al Re Ferdinando non rimaneva altra possibilità che dichiarare, come si legge nel “Giornale delle Due Sicilie” del 6 luglio 1820: <<il re di piena volontà prometteva di pubblicare entro otto giorni le basi della Costituzione>>.
In Sicilia, che dal 1816 non era più un regno autonomo, cominciarono a soffiare gli stessi venti di Napoli, in particolare a Palermo che da Capitale si era vista retrocedere a “Capovallo”. Era stato così cancellato il regno più antico d’Italia, il Regno di Sicilia.
I Patrioti Siciliani aspettavano l’occasione per ribellarsi, che si presentò immancabilmente nel 1820 quando la rivoluzione spagnola si allargò, come detto, alla parte continentale del Regno delle due Sicilie.
Nell’isola le due parti, quella occidentale e quella orientale, si divisero in due diverse posizioni. In estrema sintesi: Palermo voleva Governo e Parlamento propri; Catania, sulla scia dei rivoltosi napoletani, chiedeva la Costituzione Spagnola.
Nell’ex capitale del regno di Sicilia ci furono scontri violenti tra le forze regolari e i rivoltosi. Scrive Francesco Lo Bue “il popolo rimase padrone della piazza; privo di guida e reso ubriaco dai successi ottenuti, si abbandonò ad uccisioni e saccheggi nonché ad indiscriminati arresti e sommari processi. Anche il Reale Osservatorio Astronomico rimase vittima della furia popolare”.
Fu probabilmente questo il momento nel quale Niccolò Cacciatore sentì le urla scomposte e il fracasso della canaglia farsi sempre più vicini, finché non sfondarono la porta del suo studio. Ebbe il tempo di implorare che non toccassero le sue preziose carte e che non distruggessero niente.
Dopo avere fatto scempio di tutto quello che trovarono nella stanza, i rivoltosi lo strascinarono fuori. Era nelle loro mani.

Niccolò Cacciatore nacque a Casteltermini il 26 Gennaio del 1780 e fin da bambino palesò i segni di un brillantissimo ingegno. In occasione di una visita di Mons. Saverio Granata un giovanissimo Niccolò disegno una carta topografica della diocesi di Agrigento e ne fece dono all’alto prelato. Il presule l’accettò ammirato, raccomandando al giovanissimo cartografo di proseguire negli studi.
A tante ottime qualità si coniugarono anche delle buone occasioni. Una di queste fu l’essere nipote di uno dei più apprezzati precettori dei suoi tempi: Innocenzo Cacciatore, stimato teologo. Questa circostanza diede la possibilità a Niccolò Cacciatore di avere ottime basi. Proseguì gli studi ad Agrigento, dove apprese la retorica, per poi spostarsi a Palermo. Sotto la protezione di Santa Rosalia, patrona della città, e di Giovanni Agostino De Cosmi, affermato intellettuale, diede prova del suo valore, tanto che De Cosmi, riconosciuto l’ingegno del giovane  e osservate le sue predisposizioni, lo presentò al Direttore del Reale Osservatorio Astronomico di Palermo Giuseppe Piazzi, del quale Niccolò Cacciatore divenne primo assistente a soli vent’anni.
La fama di zelante studioso e il trasferimento di Giuseppe Piazzi a Napoli gli fecero coronare il sogno di diventare Direttore del Reale Osservatorio Astronomico di Palermo. La Specola, l’antico osservatorio astronomico, era sua! Da quel momento raramente si allontanò da quelle stanze dove lo abbiamo lasciato, tanto male in arnese, nelle mani dei malintenzionati rivoltosi dei moti palermitani del ‘20.

Inchiodatore di Cannoni – Una lunga serie di meriti e di circostanze favorevoli lo portarono dunque ad essere Direttore del Reale Osservatorio, ma in quel luglio del 1820 il povero Cacciatore doveva correre il pericolo più grande della sua vita, quello di essere ucciso, per giunta per errore. La canaglia che era penetrata fin dentro il cuore della Specola stava cercando di catturare un certo Sanso, accusato di essere “l’inchiodatore di cannoni”. Visto Cacciatore, si convinsero che si trattasse proprio di Sanso, questo scambio di persona fece sì che lo scienziato venisse catturato dai rivoltosi, che si dimostrarono pronti ad ucciderlo.
L’accusa che gli veniva mossa, quella di avere inchiodato dei cannoni che i rivoltosi volevano usare contro l’esercito regolare, lo lasciò sicuramente sbigottito.
L’inchiodatore di cannoni era colui che metteva fuori uso un cannone piantando un chiodo nel “focone”, apertura che serviva per dare fuoco alla polvere. Il chiodo rendeva impossibile questa operazione di accensione e di fatto inservibile il cannone. L’idea di inchiodare i cannoni non è nuova, si dice infatti che nelle celeberrima battaglia di Waterloo il Colonnello Pierre Agathe Heymes, dopo aver messo in fuga gli artiglieri avversari, sentendo in lontananza il rumore della cavalleria in avvicinamento, urlò disperato <<A me dei chiodi! Possibile che nell'ora cruciale nessuno abbia un martello e dei chiodi?>>.


Condannato a morte – Scrive il figlio Gaetano: <<Il giorno 27 luglio[1] egli era tratto per le pubbliche vie a furia di percosse con le braccia legate, con le membra lacere e peste: una turba insanita lo premea ai fianchi, lo minacciava mostrando un capo mozzo e insanguinato, l’esecrato nome di traditore gli suonava d’intorno>>. L’astronomo, che aveva teoricamente dialogato sull’origine dell’universo con Newton, era sul punto di essere fucilato. Ci racconta ancora il figlio: <<quando quasi ignudo lo rinchiusero in una oscura e stretta prigione fra ladri ed assassini dalla quale, conosciuto l’equivoco, lo trassero fuori, un giorno prima dell’uccisione del principe di Aci>>.
Cacciatore, con ancora negli occhi il terribile pericolo scampato, ritornò pacificamente alle sue cose, rifacendo – scrive Gaetano Di Giovanni – quasi tutto il lavoro perduto. Sei anni dopo i fatti narrati era in grado di pubblicare una Storia dell’Astronomia Siciliana.


Le sue stelle – Niccolò Cacciatore non era solo un astronomo ma era uno scienziato eclettico, dai molteplici interessi. Nel 1816, per esempio, utilizzò il suo ingegnoso sistema per poter registrare ovunque, con uguale metodo, i fenomeni meteorologici, quell’anno fu chiamato “l’anno senza estate”, infatti cominciò con tuoni, fulmini e tempesta e così si concluse. Niccolò Cacciatore, allora docente della Regia Accademia degli Studi, registrò i dati, constatando che erano dati fuori norma per una città dal clima mite come Palermo. La neve, fatto decisamente raro, cadde diverse volte. “Il 19 febbraio – annota lo studioso – c’è neve copiosissima”; nevicherà anche in primavera e in estate cadrà ‘neve rossa’ sui monti. Solo cent’anni dopo si attribuirà l’evento all’eruzione del lontanissimo vulcano Tambora. Fu docente di Geodesia, membro della Royal Society e Accademico “Del buon gusto”.
Il Piccolo principe di Antoine De Saint-Exupery si chiedeva se le stelle sono illuminate perché ognuno possa un giorno trovare la sua... e Niccolò Cacciatore ne trovo addirittura due di stelle:  è noto che, nel catalogo del 1814, due stelle della costellazione del Delfino vennero indicate da Piazzi (o dallo stesso Cacciatore) come Sualocin e Rotanev, ovvero, a lettere invertite, il nome di Cacciatore in latino (Nicolaus Venator).
Il nome di Niccolò Cacciato continua così a brillare in cielo assieme alle sue stelle...
Bibliografia:
Gaetano Di Giovanni, Notizie storiche su Casteltermini, Sala Bolognese, Arnaldo Forni Editore, 1980.
Rosario Villari, Mille anni di Storia, Milano, Mondolibri, 2000.
Francesco Lo Bue, Uomini e Fatti di Casteltermini, Palermo, Graphicadue, 1985.
Francesco Renda, Storia della Sicilia, Palermo, Sellerio, 2003.
AAVV, Storia della Sicilia, Napoli, Società Editrice Storia di Napoli del Mezzogiorno  e della Sicilia, 1977.
Sitografia:
http://www.ilportaledelsud.org/1821-48.htm
http://www.astropa.inaf.it/niccolo-cacciatore/
[1] Sulla data sussiste qualche dubbio.

Casteltermini, la truffa del ’54: ovvero, iri pi... e ristari...



“Cu è riccu d’amici è scarsu di guai”. Ma chi è ricco di amici, è anche ricco di libri. Specie se, come me, si ha la fortuna di avere amici che leggono, commentano e consigliano libri. Allora si verifica spesso che un amico ti consigli o ti regali un libro, o ancora che ti racconti di un episodio letto, facendoti scattare la curiosità e la voglia di leggere il libro dell’episodio. A volte chiacchierando si finisce per tirare fuori delle storie curiose, che addirittura riguardano il tuo stesso paese e delle quali non hai mai sentito parlare.
In questi giorni chiacchierando con il mio amico Carmelo Sciarrabone, neo papà al quale vanno i miei auguri, lui da Piove di Sacco e io da Casteltermini, mi ha consigliato un libro “Terra di rapina”  di Giuliana Saladino, non ha voluto spiegarmi perché mi ha detto: <<Leggilo e troverai una sorpresa>>. E io l’ho letto e credo di avere trovato quella sorpresa della quale parlava Carmelo...
 in “Terra di rapina”  di Giuliana Saladino. Libro che uscì nel 1977 per Einaudi e che è stato ripubblicato nel 2001 da Sellerio. Un quadro della Sicilia dal dopoguerra agli anni sessanta, dalle lotte per la terra al miracolo economico, che in Sicilia vuol dire emigrazione e perdita di civiltà. Una sorta di ciclo dei vinti al quale si alternano i soliti furbi, quelli eternamente in mezzo, quelli che Tomasi di Lampedusa... "Se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi".
In una delle testimonianze raccolte dalla compianta giornalista si parla di una truffa realizzata a Casteltermini...


Leggiamo nel libro:
«Erano anni difficili. Per sopravvivere dovevo aguzzare l’ingegno, e questo per fortuna non mi mancava. Sono un umanista e un idealista, per questo avevo partecipato con passione alle lotte per la terra, ma si era risolto con un nulla di fatto. Venne a trovarmi un amico, deve essere stato nel novembre del 1954, e mi disse: “Tu che hai tante belle idee, pensa qualcosa, perché così non si campa”.
«Sapevo che esistevano i piani Erp[1] per la ricostruzione, e che a Casteltermini, in provincia di Agrigento, erano previsti alcuni lavori. Bene, ci preparammo con cura. Riempimmo alcune cartelle di numeri e di elenchi, raccogliemmo carte topografiche e stradali da tenere sottobraccio, confezionammo alcune grosse casse riempiendole di mattoni e pezzi di legno, scrivemmo “fragile” su ogni lato, le caricammo sul treno e scendemmo a Casteltermini.
I due truffatori si mettono all’opera aspettando che qualcuno ci caschi...
«Io ero l’ingegnere, il mio amico faceva il ragioniere. Appena arrivati alla stazione annunciamo: “ siamo qui per i lavori di ricostruzione” e subito qualcuno fa: “quelli di via Macello?”. Appunto, via Macello, preziosa informazione, e facciamo trasportare queste casse, da curiosi, passanti, sfaccendati, tra mille precauzioni. “Adagio, adagio! Attenti alle apparecchiature scientifiche!” fino a via Macello. Lì cominciamo a prendere misure a terra e sulle case. A distanza ci gridavamo parole a casaccio: “Quota 77 strisciare a destra!” mi gridava il ragioniere, e io “No, più alto, deve essere livello 88!”. In pochi minuti una folla ci stava intorno, ingrossava a vista d’occhio, assisteva alle misurazioni e ci scambiava per tecnici di chi sa che cosa. Viene il sindaco, viene il maresciallo dei carabinieri, viene un avvocato, grosso proprietario della zona.
Aggiungi didascalia

Il sindaco, il maresciallo e un avvocato... sembriamo catapultati in un film di De Sica.
Il sindaco contento: “Bene, finalmente cominciano i lavori”. Tra la gente c’era chi si accostava a noi per chiedere lavoro, chi, in apprensione per la sua casa, ci chiedeva di salvarla dalla demolizione. A chiunque mi si avvicinava rispondevo burbero “Non voglio sapere niente, se avete qualcosa da dire parlate col ragioniere”. Andavano dal ragioniere e quello: “Calmi, zitti, non fate sapere niente all’ingegnere, quello quando si incazza è terribile, aggiusto io tutto”. Se li portava al bar e prendeva soldi, per salvargli la casa, per dargli un contributo, per fargli passare la strada davanti.
«L’avvocato ci ospitò a casa sua e ci offrì un ben di Dio. Ogni tanto si chinava e mi sussurrava “ingegnere per carità, la mia casa!”. In disparte il ragioniere gli promise di salvare l’edificio, una piccola variante, e l’avvocato gli mise in mano dei soldi. “Ingegnere, mi raccomando. E mi raccomando, senza assumere comunisti, state attenti”. “Avvocato, assumeremo solo chi dice lei”.
Poveri Comunisti! così bistrattati da essere esclusi finanche dalle truffe...
«Il collocatore comunale ci stette pure lui tutto il giorno attorno, preparava i nomi degli edili da assumere, tutti democristiani, pure il maresciallo diceva la sua.
«Diressero entrambi il trasporto delle casse, furono depositate con mille precauzioni in municipio, poi, dicevamo, le avremmo aperte noi stessi. “Torniamo lunedì”, dicemmo la sera, apprestandoci a prendere il treno. “Lunedì cominciano i lavori”.
Pure la salsiccia... tre chili per l’ingegnere!
«Poco prima di partire vediamo una bella salsiccia esposta in macelleria, avremmo voluto comprarne un mezzo chilo. “Tre chili per l’ingegnere” ordina il collocatore comunale e ce la regala. La facemmo cucinare a Palermo al ristorante Tre stelle.


Tutti contenti! Il sindaco, l’Avvocato che aveva evitato che i Comunisti lavorassero, il collocatore, ma...
«Della faccenda ne parlarono i giornali. “Abile truffa a Casteltermini”, quando molti mesi dopo sindaco maresciallo e collocatore si decisero a schiodare le casse e verbalizzarono il contenuto. Noi non avevamo chiesto nulla, né soldi né salsiccia, peggio per loro....
Nel  libro di  Giuliana Saladino si fa riferimento al quartiere “Macello”, da questo punto di vista non ho trovato collegamenti, non ci sono “case popolari” in quella zona, né tanto meno costruite nel periodo indicato. Ho chiesto in giro e tra le tante spiegazioni mi è stato detto che la storia si riferisce, forse, alla case popolari  che insistono su via De Gasperi.
Anzi mi è stato detto di più, ma senza nessuna prova, che potrebbero essere state spostate su pressione di un importante politico locale, che in quella zona aveva degli interessi. Queste sono solo voci e ai fini della nostra storia sono assolutamente inutili.
Per un ulteriore scrupolo di ricerca mi sono affidato al solito “Uomini e Fatti di Casteltermini” di Francesco Lo Bue, per sapere chi era il sindaco in quel periodo e chi erano i politici, in particolare democristiani, più in vista. Se volete togliervi la curiosità aprite l’allegato qui sotto.


Ancora ho condotto una breve ricerca negli archivi de “La Sicilia”, in quel periodo non risulta nessuna truffa a Casteltermini. <<Della faccenda ne parlarono i giornali. “Abile truffa a Casteltermini”>>. Questa affermazione sembrerebbe essere smentita, almeno da uno dei due giornali più importanti di quel periodo. Ho provato a consultare l’archivio del “Di Sicilia” ma non ci sono riuscito.
Si potrebbe trattare di pura invenzione...
Quello che ho pubblicato deve allora essere considerato una traccia, un punto di partenza per un chiarimento demandato a chi ricorda o sa qualcosa dell’episodio.
Giuliana Saladino, “Terra di rapina”, Palermo, 2001. 
[1] European Recovery Program (Programma di ricostruzione europea)

Casteltermini nel 1913 era più produttiva di oggi?


Qualche anno fa, durante una chiacchierata, un mio prezioso amico sottopose alla mia attenzione un libretto stampato nel 1913. L'autore è Gaetano Burgio, del quale purtroppo ho poche notizie. Nel libretto si descriveva la cittadina di Casteltermini, per brevi cenni, così come si evince dal titolo: BREVI CENNI SU CASTELTERMINI (di Gaetano Burgio).

Come prima cosa di quel periodo mi sorprese il numero degli abitanti, leggiamo cosa scrive Gaetano Burgio: “[…] mentre nel 1861 la popolazione, secondo i dati dei censimenti, risultava di n. 7607 abitanti, al 1911 risultava di 13.022 e nell'ultimo censimento dell' anno scorso di 15.802 con 3238 famiglie su una superficie abitata di mq. 300.00 circa, pari a 7 salme”.
L’altra cosa che mi sorprese, forse ancor di più, era il prosperare di molte attività produttive descritto in un elenco. Pubblicherò di seguito quell'elenco,  convinto che se non ci facciamo le giuste domande sul nostro passato, difficilmente riusciremo a migliorare il nostro pessimo presente. Certo da quello che si legge in questi  BREVI CENNI SU CASTELTERMINI, emerge che il paese di Casteltermini era sicuramente molto più produttivo nel 1913 che non nel 2017. Bisognerebbe chiedersi cosa è accaduto,  cosa ci ha portato allo stato attuale in poco più di 100 anni? La politica colonialista dello Stato centrale? Le politiche “ascare” dei nostri rappresentanti regionali? La scarsa coesione sociale…

A voi l’elenco delle attività produttive più importanti nel 1913, non omettendo  “profetica” visione dell’autore:
“Tutto concorre a che Casteltermini progredisca: infatti il commercio e le industrie di giorno in giorno pigliano maggiore sviluppo. Tra gli stabilimenti industriali possiamo notare:
1) uno stabilimento per la fabbricazione dell'acido solforico e dei concimi chimici;
2) una dinamo-elettrica, che fornisce l'energia occorrente per il lavoro meccanico della miniera S. Giovannello e per l'illuminazione;
3) due mulini, uno a turbina e l'altro ad energia elettrica, la quale permette anche il funzionamento di un cinematografo che proietta dentro il teatro Umberto I, ed un  terzo in costruzione che funzionerà anche ad elettricità;
4) una saponeria;
5) due fabbriche di acque gassose, di cui una capace di una produzione tale da soddisfare oltre i bisogni del paese anche quelli dei vicini comuni di Acquaviva Platani, Mussomeli,  S. Biagio Platani;
6) importante è poi una manifattura di dolci, tenuta a cura del sig. Vincenzo Di Pisa, la quale à (ha) raggiunto tanta perfezione che i dolci manifatturati in quella fabbrica si esportano per quasi tutti i paesi della Sicilia. In seguito a tale successo sorsero da poco altre due fabbriche simili;
7) notevole in ultimo, la produzione locale delle paste  alimentari, sia con gli antichi metodi, sia con i mezzi meccanici moderni, la quale diverrà più notevole allora quando sarà completato l'erigendo pastificio”.
(Chiaramente in questo elenco mancano le attività solfifere e l'industria dei sali minerali trattate da Gaetano Burgio in altre parti del suo scritto).

Ciciru! Un gioco d'altri tempi...


Non sappiamo se in questi tempi difficili ci siano ancora bambini che giocano a “ciciru”. Uno strano gioco che si faceva molti anni fa e che coinvolgeva i ragazzi di queste terre in lunghe sfide, a volte cruente, che duravano finché le madri non li richiamavano a casa urlando dai balconi.

Si giocava in due squadre di qualunque numero, ovviamente uguale, di partecipanti agguerritissimi. C’era prima la conta che decretava quale squadra andava “sotto” e quale invece saltava in groppa alla perdente nella conta. Uno dei componenti della squadra che andava “sotto” prendeva posto chinandosi in avanti, appoggiando le mani ad un muro, gli altri prendevano posto dietro al primo, in sequenza, chinandosi anch'essi in avanti, con la testa appoggiata al sedere del compagno precedente abbracciandolo alle cosce. Si formava così una fila di schiene, che poteva essere piuttosto lunga (tavula longa), se i partecipanti erano numerosi, pronte a sopportare il peso dei componenti dell'altra squadra, che avrebbero dovuto saltare tutti addosso ai primi, restandovi finché uno dei componenti della squadra che stava sotto non “squaracchiava”, ovvero finché non gli cedevano le gambe. I componenti della squadra che stava “sotto” dovevano a loro volta cercare di disarcionare lentamente gli avversari, naturalmente senza dare loro delle scosse visibili, che erano proibite, cercando, spostandosi a destra e a sinistra, di fare toccare con il piede a terra coloro che stavano sopra. Toccando il piede a terra perdevano e andavano sotto.
Era un gioco che presupponeva una forte resistenza fisica, ma anche la furbizia di capire quando l'avversario era in difficoltà per cercare di approfittarne. A volte l'avversario, che stava sopra, tendeva a scivolare, aggrappandosi il più possibile ad un altro compagno, questo innescava una sorta di frana collettiva, che difficilmente poteva essere evitata. Quando un componente della squadra di sopra era in difficoltà chi stava sotto faceva un ulteriore sforzo di resistenza, spesso però questa resistenza veniva fiaccata dal peso degli avversari e allora non rimaneva altro che urlare “Ciciru!”. Ecco che a quel punto si interrompeva la partita e si andava di nuovo alla conta.
Quale origine possa avere l'urlo “Ciciru!” è difficile da stabilire. In realtà la prima cosa che salta in mente è un episodio che riguarda la guerra del Vespro e i francesi invasori.
Così lo racconta Gaetano Basile: <<Il nome “ciciru” resta legato alla rivolta del Vespro con cui ci sbarazzammo di re Carlo d’Angiò e dei suoi francesi. La rivolta scoppiò il 31 marzo 1282 all’ora del Vespro del lunedì di Pasqua. Però la Pasqua quel­l’anno cadde il 29, per cui il 31 era martedì, quindi la data esatta fu il 30. Pazienza. Cominciò tra i vicoli della Palermo medievale la caccia ai francesi. Si dice che per riconoscerli li obbligammo a pronunciare cìciru che quelli storpiavano in sisiru>>.

Nel gioco però non funzionava propriamente così, infatti quando una delle due squadre urlava il fatidico “ciciru” si andava alla conta. Chi perdeva finiva sotto. Quando i componenti del gioco erano tanti si aveva la cosiddetta variazione della “Tavula longa”, che era più o meno lo stesso gioco ma che presupponeva alcuni componenti di grande agilità, perché i primi a saltare dovevano necessariamente andare il più avanti possibile per lasciare il posto agli altri, per questo motivo si preferiva far saltare prima i più agili.
Prima della conta c'erano i cosiddetti “patti”, questi patti servivano ad evitare che i componenti delle due squadre si potessero fare male. Si stabiliva che si doveva saltare senza “carricuna”, ovvero senza accentuare l'impatto sulla schiena dell'avversario. Quando la “tavola” era corta, non rispettando il patto, anti “carricuna”, era più in pericolo sicuramente il primo, quello cioè che si ritrovava con la faccia più vicina al muro. I patti spesso saltavano e si finiva per “caricare” pesantemente l'avversario. Spesso chi aveva ricevuto il “carricuni”, si sentiva in dovere di vendicarsi sull'avversario. Quando il gioco "incarogniva" ulteriormente chi saltava, al posto di poggiare il palmo della mano aperto sulla schiena dell’avversario, stampava due pugni sul groppone del povero avversario…
“Ciciru” era quindi un gioco molto maschio,  che si svolgeva spesso davanti agli altri. Presupponeva prestanza fisica, forza ed agilità. Giocando si faceva palestra. Le gambe facevano “squat”: tonificando e rinforzando la muscolatura degli arti inferiori; le braccia facevano “curl”, un esercizio muscolare per allenare braccia e bicipiti e così via discorrendo… ma soprattutto c’era divertimento e complicità…