«Una delle più celebri poesie di Francesco Petrarca comincia
con questi versi: “Solo e pensoso i più deserti campi / vo mesurando a passi
tardi e lenti”. Quelli della mia età li hanno imparati a memoria, e poi sono
rimasti stampati nella nostra mente. Non saprei dire delle generazioni più
giovani, dubito però che ne abbiano una famigliarità quasi automatica. Bisogna
riavvolgere la pellicola del tempo di circa ottocento anni per collocarli nella
storia della nostra letteratura e nella cultura che vi si rispecchia, eppure è
come se questi versi continuassero a parlarci con il loro elogio della
solitudine […]. Dunque l’elogio di Petrarca resta così attuale?
No e sì. No, perché intanto la solitudine è diventata una
malattia endemica che affligge quasi tutti e alla quale evitiamo di pensare
troppo. Ma anche sì, perché non riusciamo a vivere oppressi come siamo dalla
mancanza di pensiero e di riflessione in una società dove c’è sempre meno tempo
e spazio per indugi e pause. Anzi, dove la pausa per riflettere viene
solitamente considerata dannosa e perdente, e lo stesso modo di dire “una pausa
di riflessione” di solito è usato come un trucco gentile per prendere congedo
da chi insiste per starci vicino.
Non c’è dubbio che oggi la nostra solitudine, il nostro
deserto artificiale, stia realizzandosi in questo modo, che sia proprio una
fuga dai rumori e dall’ansia attraverso una specie di ritiro spirituale ben
protetto in cui la solitudine con i suoi morsi (ecco il punto!) viene
esorcizzata da una incessante fornitura di socialità fantasmatica. Oggi ci
sentiamo terribilmente soli, di fatto lo siamo, e cerchiamo riparo non in una
relazione sociale che ormai ci appare barrata, ma nell’illusione di essere
presenti sempre e ovunque grazie a un congegno che rappresenta effettivamente
il nostro essere soli con noi stessi. Un circolo vizioso.
È accaduto che parole come “solitudine”, “deserto”,
“lentezza”, cioè quelle che risuonano negli antichi versi di Petrarca, hanno
ormai cambiato rotta, sono diventate irriconoscibili e non possiedono più
alcuna prensione sulla nostra realtà. Eppure ci parlano ancora e vorremmo che
producessero echi concreti nelle nostre pratiche.
[…] Ma allora di cosa ci parlano quei versi che pure sembrano
ancora intrisi di senso? È scomparso il nesso tra le prime due parole, “solo” e
“pensoso”. Oggi siamo certo soli, come possiamo negarlo nonostante ogni
artificio, ogni stampella riparatrice? […] Siamo soli ma senza pensiero,
solitari e incapaci di riflettere.
30 […] Di
solito non ce ne accorgiamo, ci illudiamo che non esista o sia soltanto una
brutta sensazione magari prodotta da una giornata storta. E allora si tratta di
decidere se sia meglio continuare a vivere in una sorta di sonnambulismo oppure
tentare di svegliarci, di guardare in faccia la nostra condizione, di scuoterci
dal comodo letargo in cui stiamo scivolando. Per farlo, per muovere un passo
verso questo scomodo risveglio, occorrerebbe una difficile operazione che si
chiama pensiero. In primo luogo, accorgersi che stiamo disimparando a pensare
giorno dopo giorno e che invertire il cammino non è certo qualcosa di semplice.
Siamo infatti diventati degli analfabeti della riflessione.
Per riattivare questa lingua che stiamo smarrendo non dovremmo continuare a
riempire il sacco del nostro io, bensì svuotarlo. Ecco forse il segreto della
solitudine che non siamo più capaci di utilizzare.»
Da un articolo di Pier Aldo Rovatti, Siamo diventati analfabeti della riflessione, ecco perché la solitudine ci fa paura.
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