L’arrovellamento,
le affermazioni e le smentite delle stesse, i fatti veri e quelli presunti, i
documenti più o meno attendibili. Le testimonianze... la Testimonianza, quella. La sentenza, Vincenzo Butera, sopravvissuto e testimone. Tutto questo per cercare di ricostruire cosa avvenne a Casteltermini in quel
funesto 4 luglio del 1916. Sulla tragedia di Cozzo Disi, forse la più grande tragedia mineraria
in Italia, con l’IPIA Archimede e l’associazione La Stiva abbiamo realizzato un
documentario, regia di Giuseppe Cimino e riprese di Davide Sclafani. Lavorando
al documentario poco a poco abbiamo abbandonato la parola “tragedia”
sostituendola con “strage” e infine, dopo una profonda riflessione abbiamo
parlato di strage volontaria.
Ho
incontrato Santo Infantino, grande esperto di miniera e memoria storica di
Cozzo Disi. Con precisione e pazienza, tanta pazienza! parlava con un
claustrofobico che non è mai entrato in una miniera, ha usato con me la stessa
dedizione di chi deve spiegare il deserto del Sahara a un pinguino. Siamo
arrivati alle stesse conclusioni: non ci fu incendio e, forse, solo qualche
piccola esplosione. L’immediata chiusura delle porte ha impedito a molti
minatori ancora vivi di salvarsi. Fu vera stage.
Qualche
dubbio permaneva, anche in virtù degli scritti che affermavano l’esatto
contrario. Finalmente, chiarificatrice, è arrivata la registrazione dell’intervista
a Vincenzo Butera, unico sopravvissuto dopo la chiusura delle porte. Fu vera
strage.
Decido
di scrivere sulla vicenda, alberga in me la certezza che si trattò di una
strage volontaria, 89 morti, rimasta impunita, come dimostra la sentenza in mio
possesso. Con uno studio approfondito delle fonti, essendo in possesso dell’audio
dell’unico testimone, ho imbastito il mio romanzo. Dopo essermi impegnato nella
costruzione di una solida base storica, forte delle spiegazioni di Santo
Infantino, ho poi deciso di virare, nel bilancio tra
storia e fiction, verso quest’ultima, perché nonostante siano passati più di
cento anni questa storia tocca ancora qualche nervo scoperto.
Il resto è un’altra storia, più personale e meno
importante. “Testimoni sepolti”, il mio romanzo, è stato uno dei finalisti dell’ultimo
Premio Mursia/RTL. Mursia ha esercitato il suo diritto di opzione per 6 mesi,
ma in questo frattempo non si è mai
fatta sentire. Scaduto il tempo di opzione ho mandato il manoscritto in
giro per case editrici, peraltro sbagliando clamorosamente il file e inviando una versione
intermedia e di molto precedente rispetto a quella spedita per il premio
Mursia. Non ho ricevuto quasi mai risposte...

Infine,
dietro consiglio di Roberto Mistretta, il papà del Maresciallo Bonanno e
vincitore del Premio Tedeschi 2019, mi sono rivolto a Raffaella Catalano e
Giacomo Cacciatore, editor lei e
scrittore lui, ottenendo finalmente un aiuto per migliorare il mio lavoro. Mi piace
scrivere e il compromesso auto-pubblicazione mi permetterebbe di realizzare il
sogno di vedere ciò che scrivo pubblicato, si tratterebbe però di una
pubblicazione che non darebbe il via a nessun processo di crescita: chi scrive
se vuole crescere si deve confrontare con un editor!
Ho
sottoposto il mio romanzo a Michele Guardì, mi ha dato un po’ di consigli e mi
ha scritto la prefazione. Bella storia! La prefazione di Guardì ad un libro non
pubblicato...
Sinossi del Romanzo Testimoni sepolti, autore
Michele Rondelli
Testimoni sepolti è
un romanzo storico corale. L’evento storico narrato è la più grande tragedia
mineraria italiana, quella di “Cozzo Disi ”, avvenuta a Casteltermini il 4
luglio del 1916 costata la vita di 89
operai e il ferimento di altri 34. All’interno di questa storia
terribile, quasi a fare da contraltare
di speranza, si racconta la storia di un ragazzo, Vincenzo Butera, che è riuscito a salvarsi
sopravvivendo 13 giorni sottoterra e uscendo illeso dalle gallerie.
A
narrare la vicenda è un giornalista, Ruggero De Robertis, mandato a
Calarmena/Casteltermini dal suo giornale per raccontare una catena di
misteriosi delitti che funestano il territorio. Sullo sfondo le lotte degli
operai delle miniere per migliorare le terribili condizioni nelle quali
lavorano, il cinismo e la prepotenza dei latifondisti, le prime cruente
manifestazioni della mafia rurale, lo spopolamento provocato dall’emigrazione e
dalla Prima Guerra Mondiale.
Tutti
gli eventi sembrano essere congegnati da un “manovratore” invisibile. Don
Carmelo sogna di fuggire in America con la sua amante; i suoi figli, che si
odiano ferocemente, sognano di impossessarsi della miniera l’uno a discapito
dell’altro; il delegato Barbagallo vuole scoprire la verità su quelle morti
misteriose; Vincenzo vuole sopravvivere e sposare Anna. Infine Sebastiano Lo
Groi si prodiga affinché i sogni di tutti si realizzino, ma una inquietante
domanda si fa strada: chi è Sebastiano Lo Groi? un filantropo amico di tutti o
un avido macchinatore?
E
ancora , ci sono delle responsabilità nella morte degli 89 disgraziati? La
miniera era gestita a regola d’arte? La strage poteva essere evitata? Il
romanzo a queste domande risponde con una nuova teoria basata su una serrata
ricerca storica e sulla verità di un documento trascurato (forse volutamente
perché scomodo!). La Verità in questo secolo che separa la narrazione dalla
strage è rimasta sepolta con i suoi 89 testimoni e noi vogliamo che venga
fuori.
Capitolo 6
Il Boato
I
minatori, così pure Vincenzino e suo padre, appena entrati si facevano il segno
della croce, davanti all'Annunziata, poi molti si spogliavano, alcuni
completamente, altri rimanevano con le sole mutande, il padre di Vincenzo
preferiva lavorare vestito e lasciandosi ai piedi gli stivali. Già nel secondo
livello il caldo era molto forte e via via diventava sempre più asfissiante,
l’aria era malsana per via dei fumi delle mine e del forte odore dello zolfo, a
volte Vincenzo tornato a casa si rendeva conto che il suo alito puzzava di
zolfo. Dovevano scendere al quarto livello, metri e metri sotto terra, sempre
più vicini all’Inferno. Il ragazzo si metteva davanti allo Sciancatu che si
appoggiava alle sue spalle e così scendeva più agevolmente. Per tutta la
discesa l’uomo continuava a ripetere rivolto a Vincenzo: «Lu Signuri ti lu renni»[1]. Quando
giungevano alla meta si sparpagliavano nei vari punti.
Quella
mattina il ragazzo non si sentiva tranquillo. Aveva paura delle mine che aveva
visto preparare, delle oscure parole sulla stabilità dei pilastri che suo padre
aveva detto a Ciccio Garofalo, degli uomini con l’ascia, aveva paura del buio.
Era
al quarto livello di Cozzo Disi nel camminamento che portava all’attigua
miniera di Serralonga. Erano le tredici e trenta quando il capomastro avvertì
che ci sarebbe stato il primo sparo di mine per l’avanzamento nel terzo
livello. Il boato rimbombava per tutte le galleria, un alito di vento caldo
raggiunse Vincenzino.
-
Madunnuzza mia! mi sembra che tremano tutte cose. Chiamava il padre
per chiedergli se tutto era sotto controllo.
Tutto
andava bene secondo suo padre, ma quel giorno aveva paura, gli continuava a
sembrare che tremassero tutte cose. Non sembrava il solito carricuni, cioè il normale movimento di assestamento che si
verificava dopo lo sparo delle mine.
La
paura nel ragazzo non accennava a calmarsi. Erano otto ore che caricava zolfo
sulla propria schiena, ma la fatica non aveva avuto su Vincenzo il solito
effetto calmante, non vedeva l’ora che passasse l’ultima mezz’ora per
finire il turno.
Ogni
tanto arrivava un boato che sembrava un tuono, l’ultimo però fu tremendo ed
improvviso. Il suolo e le pareti delle gallerie ballavano come barche sul mare
in tempesta. Lo stirraturi pieno di
pietre gli scappò dalle mani. Erano passate da poco le tredici e trenta, e come
si temeva le gallerie cominciavano a collassare con rombi sempre più forti. Il
rumore era spaventoso. Le gallerie crollavano con un effetto domino, la forza
della carica di esplosivo aveva reso tutto instabile, aveva perfino spaccato la
montagna, che da quel giorno aveva preso appunto il nome di “Montagna
Spaccata”. Ma questo Vincenzino non lo poteva sapere, così come non lo potevano
sapere tutti i morti rimasti imprigionati dentro quell’inferno.
-
Aiuto! matri mia, aiuto.
Le
sue urla si univano ad altre ugualmente disperate. I crolli continuavano e il
tempo sembrava non passare mai. Grida terrificanti provenivano da vari punti.
Non si sa quando durò tutto questo.
Rumore
di tuoni, ma non era un temporale, era la montagna che franava, trascinando con
sé la vita di molti uomini. Gridava anche lui, chiamava suo padre, ma nessuno
gli rispondeva. Poi si mise a piangere e a chiamare sua madre. Disperato
tornava a chiamare suo padre. Niente, nessuna risposta. Immerso nel buio riuscì
a raggiungere una nicchia che conosceva tra il quarto e il terzo livello. Il
rumore dei crolli continuava tremendo, così come le urla. Dopo un tempo
lunghissimo, poco alla volta i suoni cominciarono ad affievolirsi: i crolli
cessarono. Le urla diventavano lamenti, poi gemiti sempre più lontani, infine
il silenzio. Finalmente il ragazzo uscì dal suo nascondiglio, continuava a
chiamare suo padre fino a rimanere senza voce. Il padre non rispondeva. Il ragazzo
sperava che potesse essere ancora vivo ma non riusciva gridare, poi un pensiero
più terribile si fece largo nella sua testa.
- Il povero papà mio è forse sotto
le macerie e nessuno lo aiuta. - Preso dalla disperazione tornava ancora a
chiamare suo padre, la voce quasi non gli usciva più. Chiamava i nomi di tutti
quelli che ricordava essere nella sua zona e nel suo turno. Pensava ad Annuzza,
forse non l’avrebbe vista mai più, pensava a sua madre e ai suoi occhi tristi.
Perdere un figlio e il marito in quel modo, dopo la disgrazia dell’altro figlio
ucciso, poteva una donna resistere a
tanto dolore? A tratti gli veniva davanti gli occhi suo cugino vestito da
soldato, beato lui. Povero ragazzo, vedeva realizzarsi davanti ai suoi occhi il
suo più grande incubo: stava per fare la fine del topo. Chiusi gli occhi, con
fervore invocava la Madonna Assunta, quella che aveva pregato prima di
scendere, quella che secondo lui lo avrebbe salvato.
*
La
notizia fu portata in paese dai boati. Subito tutti capirono cosa stava
accadendo. Un lugubre lamentoso corteo si materializzò e prese la strada più
veloce verso la miniera. A raccontarmi tutto questo fu sempre Annuzza, anche in
questa parte del racconto ho notato delle incongruenze nel tempo della sua
narrazione, ma se il tempo è impreciso i fatti sono veri e quindi non possono
essere omessi. La ragazza si unì agli altri. Sperava di avere capito male,
sperava che il suo Vincenzo avesse dato retta ai suoi presagi, che non fosse
entrato in miniera. Fu lei che assistette alla scena tra i figli di don Carmelo
Pagano e Ciccio Cannella. L’uomo era uscito vivo da quell’inferno ma dentro aveva
un fratello e un nipote quindi decise di tornare indietro. Passando disse ai
due, davanti a tutti i loro scagnozzi: «Se è successo qualcosa a mio fratello e
a mio nipote vi scanno come maiali!». Prese una borraccia e rientrò nella
miniera. La ragazza vide lo sguardo d’intesa tra Filippo e uno dei suoi uomini.
Fecero passare pochi minuti e cominciarono a murare le porte. Ciccio Cannella morì
murato vivo con molti altri. La povera Anna chiamava il suo Vincenzo, nel
mentre andava da un ferito all’altro, cercando di aiutare più che poteva, fu in
seguito a quei tragici momenti che feci la sua conoscenza. La ragazza chiedeva
aiuto per spostare un carusu morente
che rischiava di essere calpestato dalla folla, nessuno l’aiutò. Il bambino
morì tra le sue braccia circa un’ora dopo, in tutto quel tempo, con voce sempre
più flebile, non cessò mai di chiamare la sua mamma. Morì senza vederla la sua
mamma.
[1] Il Signore te ne renda merito.