Nella mia vita ho sempre fatto di testa mia, a volte sbagliando, anzi spesso sbagliando. Quando ho dovuto leccarmi le ferite, ho seguito il consiglio di Tommaso da Campis, ho cercato la pace in un angolo con un libro.
Una delle tante volte che mi sono ritrovato a leggere un libro con funzione “consolatoria”, mi sono imbattuto in queste parole: «Paese di carogne! Va’ad Aragona, a due passi da Girgenti; va’ a Favara, a Grotte, a Casteltermini, a Campobello… Paesi di contadini e solfaraj, poveri analfabeti. Quattromila, soltanto a Casteltermini! Ci sono stato la settimana scorsa; ho assistito all’inaugurazione del Fascio». […] «bisognava vederli… Tutti pronti e serii… quattromila… compatti… parevano la terra stessa, la terra viva, capisci? Che si muove e pensa… ottomila occhi che sanno e che ti guardano… ottomila braccia…».
L’opera dalla quale ho preso questo breve estratto è del premio Nobel siciliano Luigi Pirandello, si tratta dei “Vecchi e i giovani” e parla, ancora una volta, di Casteltermini.
Pubblicato nel 1913, i “Vecchi e i giovani” è un romanzo di Pirandello di ambiente siciliano. Siamo nella Sicilia dei sanguinosi moti dei “Fasci” del 1893. Opera insolita nella produzione pirandelliana, in questo romanzo prevalgono gli interessi politici e sociali che prendono il sopravvento sui temi più cari al Nobel agrigentino, dell’individualità e della psicologia.
L’opera si sofferma sulla descrizione del climaterio che caratterizza la nascita di questo movimento rivendicativo e politico, a carattere socialista, sorto tra i contadini e i minatori, noto appunto con la denominazione “Fasci Siciliani”. La domanda che mi pongo è questa: davvero il “Fascio” di Casteltermini era il più grande e organizzato della provincia di Agrigento, così come racconta Pirandello, quanto è dovuto alla fantasia dello scrittore e quanto è vero?
Certo il terreno di coltura c’era tutto. Lo storico Francesco Lo Bue, nella sua opera “Uomini e fatti di Casteltermini”, così descrive la condizione dei lavoratori delle miniere: <<generazioni di zolfatai andavano a lavorare in condizioni disumane, con il quotidiano pericolo di rimanervi schiacciati o asfissiati, senza sufficienti mezzi di protezione dai pericoli di crolli. […] (le miniere) avevano assicurato un lavoro a migliaia di operai e ad altrettante famiglie ma procurato solo un pane duro e amaro e provocato morti, lutti disperazione e pianti>>.
Le condizioni economiche dei nostri zolfatai erano veramente disastrose ed erano lo specchio di tutta la Sicilia. L’insurrezione era inevitabile e Pirandello la descrive come la parabola di una forza che brontola fin dalle prime pagine, esplode ed è inesorabilmente schiacciata dallo “Stato d’assedio”. Questa misura, così drastica e pesante, offendeva il geloso sentimento degli isolani, indignati contro quest’altra sopraffazione. «La nativa fierezza, comune a tutti gli isolani, si ribellava a questa nuova onta che il governo italiano infliggeva alla Sicilia, invece di un tardivo riparo ai vecchi mali». L’antico profondo malcontento diventa ovunque d’un tratto fierissima indignazione contro quelle misure esose. Enorme è per lo scrittore la disparità fra quell’agguerrito spiegamento di forze e quei poveri affamati che nei paesini dell’interno «si raccoglievano in piazza, mandre di gente senza alcuna intesa, senz’altra bandiera che i ritratti del re e della regina, senz’altra arma che una croce imbracciata da qualche donna lacera e infuriata in capo alla processione».
La condizione dei nostri minatori e dei nostri contadini era in verità quella della miseria e della necessità. Al lavoro duro e male retribuito si devono aggiungere vessazioni delle quali si è persa la memoria. Gli affitti ai contadini erano esosi e superavano ampiamente i livelli di sfruttamento, il caporalato, le gabelle, manomorta, manoviva. Insomma, tutta una serie di soverchierie, che si aggiungevano al peso di un lavoro pesante e mal retribuito. La soverchieria più grande erano le anticipazioni di generi alimentari fatte dalla bottega del padrone-coltivatore a un tasso di usura elevatissimo. Il sistema era semplice e abominevole. Si ritardava la paga di un paio di settimane, nessun operaio aveva nemmeno il più piccolo capitale o un minimo di agiatezza, quando il pianto dei figli e le lamentele della moglie superavano il livello di sopportazione subentrava la disperazione, questa spingeva il povero operaio ad entrare nel tunnel del debito con il padrone, che non sarebbe stato più colmato. Il secondo passo, giacché il debito era incolmabile, era la paga in natura. Il padrone non dava più denaro all’operaio, ma solo il poco cibo che permetteva la sopravvivenza all’operaio e alla sua famiglia, cibo che sempre più spesso era cibaglia d’infima qualità.
Stabilito che le condizioni ci sono tutte per la creazione di un “Fascio” di grandissime dimensioni, cerchiamo di capire quanti abitanti faceva Casteltermini all’epoca dei fatti, lo Storico Lo Bue ne annovera circa tredicimila, diventa difficile credere ai quattromila iscritti al Fascio di Casteltermini, forse si trattava di quattromila manifestanti. La seconda ipotesi è più credibile, se teniamo conto delle donne e dei “carusi”, il numero è raggiungibile.
La condizione dei nostri minatori e dei nostri contadini era in verità quella della miseria e della necessità. Al lavoro duro e male retribuito si devono aggiungere vessazioni delle quali si è persa la memoria. Gli affitti ai contadini erano esosi e superavano ampiamente i livelli di sfruttamento, il caporalato, le gabelle, manomorta, manoviva. Insomma, tutta una serie di soverchierie, che si aggiungevano al peso di un lavoro pesante e mal retribuito. La soverchieria più grande erano le anticipazioni di generi alimentari fatte dalla bottega del padrone-coltivatore a un tasso di usura elevatissimo. Il sistema era semplice e abominevole. Si ritardava la paga di un paio di settimane, nessun operaio aveva nemmeno il più piccolo capitale o un minimo di agiatezza, quando il pianto dei figli e le lamentele della moglie superavano il livello di sopportazione subentrava la disperazione, questa spingeva il povero operaio ad entrare nel tunnel del debito con il padrone, che non sarebbe stato più colmato. Il secondo passo, giacché il debito era incolmabile, era la paga in natura. Il padrone non dava più denaro all’operaio, ma solo il poco cibo che permetteva la sopravvivenza all’operaio e alla sua famiglia, cibo che sempre più spesso era cibaglia d’infima qualità.
Stabilito che le condizioni ci sono tutte per la creazione di un “Fascio” di grandissime dimensioni, cerchiamo di capire quanti abitanti faceva Casteltermini all’epoca dei fatti, lo Storico Lo Bue ne annovera circa tredicimila, diventa difficile credere ai quattromila iscritti al Fascio di Casteltermini, forse si trattava di quattromila manifestanti. La seconda ipotesi è più credibile, se teniamo conto delle donne e dei “carusi”, il numero è raggiungibile.
Dalle poche parole del romanzo Pirandelliano si arguisce che la gran parte degli iscritti ai Fasci delle nostre zone erano minatori. Uomini dediti a una vita di sacrificio e di fatica, isolati sotto terra, per mesi non vedevano la luce del sole, andavano la mattina presto con il buio e tornavano la sera tardi. A volte, specie in inverno, affrontavano il lungo tragitto che li portava sul posto di lavoro sotto la pioggia e al ritorno era lo stesso e in più l’aggravante del terribile sbalzo di temperatura, in ultimo erano esposti a un’aria così malsana che la quasi totalità soffriva di malattie polmonari, e di queste spesso moriva.
Si capisce perché ai minatori di Casteltermini altro non restava che cercare la protezione Celeste. Fu così che nel 1890, un anno prima dell’inizio dei Fasci (1891-3), come si legge nell’opera “Calogero Cardella” di Giovanna Caramanna, arrivò in paese una meravigliosa statua dell’Annunciazione, i committenti erano i nostri poveri zolfatai, che la pagarono con il sudore della propria fronte. L’autore era appunto Calogero Cardella. Questo gruppo statuario si può ammirare ancora in Matrice, è composto da una splendida Madonna, l’Arcangelo Gabriele e un inginocchiatoio di finissima fattura. Io sono sempre stato affascinato da quella statua. All’età di dieci anni, circa dopo undici anni che la Miniera di Cozzo Disi era passata sotto l’egida della Società Chimica Mineraria Siciliana come si legge nell’opera di Sebastiano Infantino “La miniera di zolfo e la sua gente”, e le cose andavano meglio per i nostri minatori, mia nonna Marietta, devotissima, e sorella del defunto Padre Mondello, mi “spingeva” ad accompagnarla per seguire la messa. Io mi distraevo e seguivo poco, ricordo gli strattoni per farmi alzare durante la funzione. C’era però un momento che mi affascinava, dopo la messa, tutti i presenti si recavano a pregare sotto un simulacro, ognuno secondo la propria devozione. Mia nonna andava a pregare sotto la statua dell’Immacolata, io restavo nella zona dell’Annunziata, mi piaceva ascoltare quelle donne che pregavano, ne percepivo la devozione come qualcosa di mistico e di magico, dopo un poco la preghiera sembrava mutarsi in lamento ed io rimanevo ad ascoltare trattenendo il fiato. Dopo undici anni dall’innegabile miglioramento delle condizioni dei minatori c’era ancora chi soffriva, c’era chi era passato dalla fame alla fame d’aria, c’era chi vedeva il proprio giovane padre respirare a stento, c’era chi aveva bisogno del miracolo…
Si capisce perché ai minatori di Casteltermini altro non restava che cercare la protezione Celeste. Fu così che nel 1890, un anno prima dell’inizio dei Fasci (1891-3), come si legge nell’opera “Calogero Cardella” di Giovanna Caramanna, arrivò in paese una meravigliosa statua dell’Annunciazione, i committenti erano i nostri poveri zolfatai, che la pagarono con il sudore della propria fronte. L’autore era appunto Calogero Cardella. Questo gruppo statuario si può ammirare ancora in Matrice, è composto da una splendida Madonna, l’Arcangelo Gabriele e un inginocchiatoio di finissima fattura. Io sono sempre stato affascinato da quella statua. All’età di dieci anni, circa dopo undici anni che la Miniera di Cozzo Disi era passata sotto l’egida della Società Chimica Mineraria Siciliana come si legge nell’opera di Sebastiano Infantino “La miniera di zolfo e la sua gente”, e le cose andavano meglio per i nostri minatori, mia nonna Marietta, devotissima, e sorella del defunto Padre Mondello, mi “spingeva” ad accompagnarla per seguire la messa. Io mi distraevo e seguivo poco, ricordo gli strattoni per farmi alzare durante la funzione. C’era però un momento che mi affascinava, dopo la messa, tutti i presenti si recavano a pregare sotto un simulacro, ognuno secondo la propria devozione. Mia nonna andava a pregare sotto la statua dell’Immacolata, io restavo nella zona dell’Annunziata, mi piaceva ascoltare quelle donne che pregavano, ne percepivo la devozione come qualcosa di mistico e di magico, dopo un poco la preghiera sembrava mutarsi in lamento ed io rimanevo ad ascoltare trattenendo il fiato. Dopo undici anni dall’innegabile miglioramento delle condizioni dei minatori c’era ancora chi soffriva, c’era chi era passato dalla fame alla fame d’aria, c’era chi vedeva il proprio giovane padre respirare a stento, c’era chi aveva bisogno del miracolo…
E il miracolo avvenne, laico ma avvenne. Accadde una cosa che, quando mi è stata raccontata, mi ha riempito d’orgoglio. L’Ente Minerario che era diventato l’esercente, imitando lo stile delle miniere del nord d’Europa, ha istituito un premio di produzione. Ebbene, i nostri zolfatai si sono messi a produrre al di là di ogni aspettativa, mi diceva uno di loro prendevano più di premi che di stipendio, producevano così tanto… che la Regione alla fine gli tolse il premio! Quando mai in Sicilia si è premiato chi produce?
Ora la miniera è soltanto un ricordo, diventerà forse un museo, speriamo. Certo un sindaco sensibile c’è stato, il Professore Totò Lo Presti, nel 1996 ha dato incarico allo scultore Pino Cirami di realizzare un monumenti ai Caduti del Lavoro, così come si fa per i caduti in guerra, così come fa chi capisce il valore di quelle persone, di chi si è sacrificato per dare un domani alla nostra comunità, Francesco Lo Bue conta 325 morti in miniera.
La miniera di zolfo è stata chiusa, si è favoleggiato su pensioni a quaranta anni, non rilevando che queste persone avevano iniziato a lavorare in miniera a tredici e avevano magari ventisette anni di lavoro altamente usurante. Si è favoleggiato di buone uscite milionarie, si è dato modo al Castelterminese di esercitare la propria vocazione più naturale: sparlare. Sì, perché noi, dico noi castelterminesi, quando non possiamo commiserare, sparliamo. Io sono convinto che i nostri minatori andassero difesi, io sono convinto che si debba tornare a rileggere “I vecchi e i giovani”, per tornare a capire come si difende la propria terra, io sono convinto che ogni moneta in più che entra in paese sia un atomo di ossigeno per la nostra asfittica economia, io sono convinto, attualizzando, che se i lavoratori ASU scelgono forme di protesta radicali, il paese deve smettere di invidiare sonnecchiando e si deve mettere a fianco di questi lavoratori. Ho scritto troppe volte “io sono convinto”. Sarà, perdonatemi se non so scrivere di cose “rilevanti e perigliose”, io scrivo solo di ciò che sento.
Ora la miniera è soltanto un ricordo, diventerà forse un museo, speriamo. Certo un sindaco sensibile c’è stato, il Professore Totò Lo Presti, nel 1996 ha dato incarico allo scultore Pino Cirami di realizzare un monumenti ai Caduti del Lavoro, così come si fa per i caduti in guerra, così come fa chi capisce il valore di quelle persone, di chi si è sacrificato per dare un domani alla nostra comunità, Francesco Lo Bue conta 325 morti in miniera.
La miniera di zolfo è stata chiusa, si è favoleggiato su pensioni a quaranta anni, non rilevando che queste persone avevano iniziato a lavorare in miniera a tredici e avevano magari ventisette anni di lavoro altamente usurante. Si è favoleggiato di buone uscite milionarie, si è dato modo al Castelterminese di esercitare la propria vocazione più naturale: sparlare. Sì, perché noi, dico noi castelterminesi, quando non possiamo commiserare, sparliamo. Io sono convinto che i nostri minatori andassero difesi, io sono convinto che si debba tornare a rileggere “I vecchi e i giovani”, per tornare a capire come si difende la propria terra, io sono convinto che ogni moneta in più che entra in paese sia un atomo di ossigeno per la nostra asfittica economia, io sono convinto, attualizzando, che se i lavoratori ASU scelgono forme di protesta radicali, il paese deve smettere di invidiare sonnecchiando e si deve mettere a fianco di questi lavoratori. Ho scritto troppe volte “io sono convinto”. Sarà, perdonatemi se non so scrivere di cose “rilevanti e perigliose”, io scrivo solo di ciò che sento.
Fonti:
Pirandello, L. (1932), I vecchi e i giovani, Milano, Mondadori.
Infantino, S. (2005), La miniera e la sua gente, Caltanissetta, Paruzzo.
Lo Bue, F. (1985), Uomini e fatti di Casteltermini, Palermo, Publisher F.L.B.
Colajanni, N. (1895), Gli avvenimenti di Sicilia, Palermo, Sandron Editore.
Caramanna, G.( 2006) Calogero Cardella, Canicattì, Tria Casalia
Chiarenza, L. (2004), Casteltermini attraverso le immagini, Bruxelles, New Vision E.
Complimenti bellissimo articolo con riflessioni che fanno pensare,
RispondiEliminaGrande prof. Rondelli. Complimenti
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