mercoledì 11 dicembre 2019

L'artificio del fuoco



Le immagini sono di Francesco Galizia che ringrazio.

L’arte di fabbricare i fuochi d’artificio è molto antica, alcuni la fanno risalire addirittura ai Fenici, ma per le fonti più accreditate essa ha origine in Cina, da dove fu importata, nell’area del Mediterraneo, verso il XII Secolo dagli Arabi.
La pirotecnia, ovvero l'arte di fabbricare i fuochi d'artificio, che bruciando producono particolari effetti luminosi, è molto suggestiva e affascinante ma al tempo stesso misteriosa e poco conosciuta.
Questa tecnica in Europa fu introdotta e in parte codificata dal monaco tedesco Bertold Schwartz , verso la metà del XIII secolo,  il primo a impiegare la polvere da sparo nella formula ancora oggi utilizzata (75% nitrato di potassio, 15% carbone e 10% zolfo) per sparare un proiettile, mentre le prime fabbriche pirotecniche sorsero in Germania intorno al 1340 ad Ausburg, Spandau e Liegnits.
Nel 1535 il trattato “De la Pirotechnia” di V. Biringuccio, descrive sia gli artifici usati per scopo di guerra sia quelli impiegati in occasioni di festeggiamenti, in quanto anticamente gli artificieri militari, dovevano provvedere anche alla fabbricazione di fuochi da accendere durante gli spettacoli per celebrare la vittoria. In seguito l’impiego di fuochi d’artificio si estese anche ad altre feste, come quelle sacre e ad altre occasioni profane.
Nel Secolo XVII due furono le scuole di fuochi d’artificio più importanti, quella di Norimberga e quella italiana, che si specializzò, ben presto, nella fabbricazione di fuochi artisticamente elaborati, capaci di produrre effetti scenografici molto spettacolari.
Agli inizi del XVIII Secolo, ebbero grande rinomanza i pirotecnici italiani Ruggieri, padre e figlio, di Bologna, i quali eseguirono a Parigi i fuochi pirotecnici che ancora si dicono i più belli e splendenti che si siano mai visti.

Oggi, la fabbricazione di fuochi d’artificio, è opera di artigiani specializzati, che spesso si tramandano il mestiere di generazione in generazione.
I fuochi pirotecnici sono entrati a far parte delle tradizioni delle nostre feste, associati allo svolgimento di importanti funzioni religiose come le Processioni.
 <<Nobile, rischiosa e aristocratica l'arte del fuoco, progetto che si distrugge nel momento spettacolare di mostrarsi nella ricchezza oracolare delle sue meravigliose articolazioni di colori, ritmi, disegni, prospettive miracolose, rappresenta il mistero della creazione, il grandioso e l'effimero, l'eterno e il mutevole in tutto il suo spietato lirismo iconoclasta. Resta comunque l'arte più ammirata e la meno conosciuta. Tutte le arti si sono costruite un mondo, teorie, regole, storia. I fuochi marciano nel tempo del silenzio.>>, così la definisce Francesco Nicassio nel suo “Fuochi pirotecnici” (1999)
I fuochi pirotecnici fanno storicamente parte della cultura e dei rituali siciliani. Pensiamo alla Festa di Santa Rosalia, Patrona della Città di Palermo. ‘U Fistìnu’, il tradizionale Corteo storico, un mix di folklore e religione che trova il suo culmine proprio nei tradizionali fuochi d’artificio; consideriamo il consueto spettacolo pirotecnico che a Messina incanta migliaia di persone e che conclude la festa dedicata alla venerata Maria; ancora Catania, con il suo grandioso spettacolo di fuochi artificiali in piazza Duomo, degna conclusione della festa della patrona S. Agata. Insomma in Sicilia non c’è festa importante, che sia dedicata ad un santo, che non si concluda con i fuochi d’artificio. Questa è la nostra tradizione, queste sono sempre state le nostre feste.
E i fuochi d’artificio sono sempre affascinanti e al tempo stesso misteriosi, sì perché esistono pochi libri che spiegano come si fabbricano o come si sparano i fuochi d'artificio, tutto è racchiuso nelle mura di cinta della fabbrica: le teorie, le formule, i segreti, una tradizione orale, visiva e manuale inaccessibile a tutti e che si trasmette soltanto di padre in figlio.

I fuochi hanno molte funzioni. Dalle più semplici, come quella di permettere la partecipazione simbolica a tutti quelli che, non potendo raggiungere il paese, si accontentavano di vedere lo spettacolo, al quale comunque contribuivano economicamente attraverso le famiglie, da lontano; quello di avvertimento di “apertura della festa”, di solito colpi singoli e distanziati tra loro, intellegibili a tutti e che, ancora una volta, servivano agli abitanti del contado per avere certezza dell’inizio della festa. Vi sono funzioni più complesse, per questioni di brevità citiamo le più comuni. Leggiamo in “Le fiamme dei santi” di Ignazio E. Buttitta (Sellerio, Palermo, 1999) <<L’uso simbolico del fuoco era inteso a determinare la rigenerazione della natura. In quanto elemento di rigenerazione il fuoco detiene un valore purificatorio […].
La rigenerazione ha simbolicamente a che fare con la fertilità, intesa sia in senso ampiamente metaforico (della comunità, della vita, economica…) sia, stricto sensu, legata alla produzione dei campi, che devono essere fertili per definizione, così da garantire la sopravvivenza alla Comunità.

I fuochi artificiali sono generalmente chiamati dalle nostre parti masculiata (o maschiata), apprendiamo da Gaetano Basile che il termine <<masculiata indica il gran finale del gioco di fuoco, o sparo continuo di mortaretti, da masculu (o maschettu), che è il mortaretto>> (Gaetano Basile – Dizionario Sentimentale della Parlata Siciliana, Dario Flaccovio Editore, Palermo, 2009).
I fuochi d’artificio sono quindi parte essenziale di antichissimi riti di fertilità e, non a caso, il loro andamento imita quello del coito, cominciano con una serie di colpi isolati, accelerano uniformemente e terminano <<in gloria con la solita orgasmica masculiata finale>>, come scrive Santo Piazzese in “I delitti di via Medina-Sidonia” (Sellerio, Palermo, 1996).
Un’altra ipotesi li vorrebbe complici nello stimolare la piovosità dell’inverno, indispensabile nella produzione agricola. La volta celeste resa feconda grazie ad una inseminazione dell’elemento opposto all’acqua, il fuoco appunto (in e yang, maschio e femmina), che parte dalla terra e dagli uomini.
I fuochi artificiali ci ricordano infine la caducità della vita degli uomini: brilliamo e strepitiamo per un breve tempo, poi ci perdiamo nel buio alla fine di una tremolante parabola discendente.

Di me medesmo meco mi vergogno


Qualche anno fa ho tentato, goffamente, di liberarmi dai social. Non miravo a conquistare una libertà totale, ma solo una stentata libertà condizionata: togliere il mio profilo personale e mantenere quello di Sikelia. Non è stato possibile… qualche simpatico “personaggetto” ha segnalato, giustamente, che Sikelia non è una persona e quindi non può avere un profilo; ho provato a renderla mia figlia chiamandola “Sikelia Rondelli”, il simpatico “personaggetto” ha poi segnalato che Sikelia non può essere il nome di una persona reale. Alla fine mi sono visto costretto a dare il mio nome al profilo che fu di SikeliaNews, ammettendo miseramente il fallimento della mia strategia di fuga. Ho poi cercato di mantenere un certo distacco, sforzandomi di evitare di essere risucchiato di nuovo dalle Malebolge dei social, l'ho fatto non postando nulla di personale, non rispondendo alle provocazioni, ma neanche alle sollecitazioni più interessanti, ho però osservato…
Ho visto le persone cambiare. Ho visto i nuovi Benjamin Button, gente la cui vita social procede al contrario. Nascono vecchi, mettendo le loro foto più recenti, poi le cambiano, risalendo gli anni all’indietro,  infine entrano nel vortice di un giovanilismo drogato da un’overdose di Photoshop e filtri. Ringiovaniscono, dimagriscono, rifioriscono. Proprio come il personaggio del racconto di Francis S. Fitzgerald protagonista de “Il curioso caso di Benjamin Button” (Racconti dell'età del jazz).
Ho visto gemelli in negativo di Dorian Gray,  protesi a proteggere il loro alter ego social dalle ingiurie del tempo, non potendo proteggere sé stessi; ahimè il tempo passa e allora ci si accontenta di una effimera gioventù virtuale, ma il tempo non si inganna, scorre inesorabile. Al massimo si può ingannare qualche sprovveduto, uno dei tanti che non adotta il sano “principio di diffidenza”. A volte il principe nella foto nella realtà è un ranocchio e la farfalla una balena. Nessuno è profeta in patria, perché in patria ti conoscono, ma lo può essere sui social, forse per questo sguazziamo nelle amicizie (virtuali) e anneghiamo nella solitudine (reale).
 Il sano “principio di diffidenza” non sfiora tutte quelle persone che condividono, commentano e diffondono notizie soffermandosi solo sulla lettura del titolo.
Il dominio della scrittura sulla lettura
Spesso la notizia contenuta nell’articolo si ridimensiona di molto rispetto a roboante titolo: “Il Sindaco di Paperopoli questa volta è a casa, guardate cosa abbiamo scoperto!”. Il tutto correlato da formule acchiappa polli del tipo: …non volevamo crederci, siamo davvero senza parole, guardate cosa ha detto, …prima che lo censurino, nessuno diffonde questa notizia, e infine l’immancabile “condividete!”

Su internet, veicolate dai social, ciascuno si sceglie le proprie fonti d’informazione, serie o bislacche, si crea così un universo a misura dei propri pregiudizi, ossessioni, fobie, allucinazioni.
Ogni giorno si diffondono decine di nuovi motivi per indignarsi. Bauman osservava come (finita la fede in una salvezza dall’alto, dallo Stato, dalla rivoluzione)  hanno gioco facile i movimenti dell’indignazione, quelli che sanno cosa non vogliono ma non sanno cosa vogliono, che cambiano più volte idea in base ai sondaggi, quelli che a Roma vogliono una cosa, a Palermo non sanno cosa fare, ad Alcamo dicono di volerne un’altra, opposta a quella di Roma; quelli che non si fanno etichettare, come poteva avvenire con gli anarchici, i brigatisti, le cellule combattenti. Senza colore, né rossi né neri, sono oltre le vecchie bistrattate ideologie. Le ideologie già... la bussola per  molti di noi prima dell’avvento dei “partiti taxi”, dai quali si scende e sui quali si sale a piacimento, spesso cambiando più volte direzione.
In questo caos la scrittura prende il sopravvento sulla lettura. Si tratta però di un “testualismo debole”: tutti scriviamo ma in pochissimi leggono le nostre esternazioni. Alla ricerca disperata di consenso sui social si finisce per avere più hashtag che like, si finisce per mettere in piazza, danneggiandola,  la nostra vita privata.
Nuove ossessioni. Il selfie secondo voi ha migliorato le nostre vite? o ha costretto molti di noi a recitare una miserevole parte, fatta di ostentata finzione?
Siamo di fronte ad una delle invenzioni che definiscono il nostro tempo, a giudicare dallo spettacolo quotidiano intorno a noi, non ci ha resi più ricchi, più creativi, più sociali. Ha solo generato un’orgia di vanità che si traduce nell’ossessione compulsiva di fotografare noi stessi e inviare all’istante l’immagine a gente alla quale poco importa, che spesso ricopre il mittente di lodi e complimenti virtuali e di “lazzi e cachinni” reali!
 Leggevo l'altro giorno che di solito si inizia ad usare i social per tenersi in contatto con amici, parenti e conoscenti; poi cominciano a piacerci perché possiamo ficcare impunemente il naso nelle vite altrui, spesso generosamente spiattellate sullo stesso mezzo. Un giorno, improvvisamente, cominciamo a interessarci sempre meno degli altri, e sempre più di noi stessi, e allora finisce che passiamo intere ore ad abbellire, sarebbe meglio dire truccare, il nostro profilo, calibrando al millimetro le foto, i tag, i contatti, le menzioni, le altisonanti frasi, stregati da un narcisismo a buon prezzo che, in ultima analisi, ci sta rendendo una congrega di esibizionisti istupiditi.

Di jazz e di un mio amico



Ernesto, Carmelo e gli altri... - Essere menzionato nella prefazione di “Cose di jazz” di Carmelo Sardo assieme ad Ernesto Alaimo, ha risvegliato in me il ricordo di quella che è stata una avventura fantastica (Casteltermini24), fatta di tanta improvvisazione (a proposito di jazz...), sperimentazione e paziente formazione, elargita soprattutto da parte di Ernesto, di un biennio da pionieri, se non da peones, della saggistica web. Spinte e controspinte, saperi ed esperienze condivise, ci hanno permesso di crescere, meglio nel caso di Carmelo, e di migliorare, di confrontarci e a volte scontrarci, tanto che l’imprinting di quella avventura caratterizza ancora profondamente Sikelia, filtrato però dalla sapienza del Mallia e del suo: “noi siamo per la circolazione delle idee e non per il copyright”.
Sikelia si è arricchita di altri preziosi tasselli: Francesco Spicola ed Emmanuele D’Urso, provenienti da altre esperienze e infine, fortissimamente voluto dal sottoscritto, è arrivato Carmelo Sardo e il suo jazz ma non solo, storia, musica popolare, politica e altro ancora, sempre con la sua discrezione e sempre con la sua intermittenza, che crea attesa e fa apprezzare di più le “cose”, come di regalo atteso che arriva quando non ci speravi più, trasformando in sorpresa l’attesa...
Cose di Carmelo e di jazz - ...che poi si finisca per scrivere per “l’Avanti” oppure di jazz per l’importante magazine “Tracce di jazz”, è un’altra storia, più recente e importante.
In “Cose di jazz e di un suo scribacchino” Carmelo Sardo ha raccolto una parte di ciò che ha scritto per “Tracce di jazz” e il saggio “Gigi Sanfilippo, il jazz di Duke a Casteltermini”, pubblicato dal nostro blog. Già dal titolo si coglie molto dell’essenza, del contenuto del libro e del carattere dell’autore. Si coglie la modestia e l’autoironia nel chiamare “Cose” (nome mutuato per sua stessa ammissione da Giovanni Mazzarino) i pregevoli saggi e di definire se stesso “scribacchino”. Questo è Carmelo Sardo, un saggista che ha superato la fase “pioneristica” e si è messo a produrre con grande qualità, “nella diffidenza che lo fece esitare” è apprezzato nel mondo del jazz, nel quale si muove con eleganza e precisione, questa è la sua cifra stilistica.

Tamburo e gli altri – I saggi scritti da Carmelo hanno la gradevole caratteristica di non essere solo “Cose di Jazz”, da questi vengono fuori storie di uomini e immagini dei tempi, tanto che il jazz quasi diventa solo un pretesto per raccontare. Grazie a questo abbiamo conosciuto la tragica fine di “Tamburo”, ma anche la Bologna de “La Strada del Jazz”, la passione di Pupi Avati per il ritmo sincopato e l’improvvisazione; abbiamo sorriso alla riottosità di Veltroni e alla incalzante, paziente ed educata intervista di Carmelo; il rivoluzionario Aldo Sinesio e una frase in dialetto: “Chissu di Archie Shepp mi parica”, dove in ogni parola risuonano memorabili arcani siciliani; Jerre Mangione e la sua fantastica “Mount Allegro”, le notturne riflessioni filosofiche della zio Nino e l’incrollabile fede dello zio Stefano che, alla vigilia di un vitale appuntamento elettorale,  così sentenziava: “Che differenza fa, chi vince le elezioni? […] qualsiasi cosa succeda alla Sicilia dipenderà dalla volontà di Dio e da nessun altro”. Tutte le persone narrate da Carmelo nei suoi saggi sembrano un specchio dell’autore stesso, in esse si coglie un’energia ribelle che è propria del carattere e, di conseguenza, della scrittura Carmelo.
Gigi Sanfilippo – Pubblicato per Sikelia, che orgoglio scrivere così…  “Gigi Sanfilippo, il jazz di Duke a Casteltermini” ha alle spalle una felice intuizione prima e poi una meticolosa ricerca.
Ogni tanto si alza un vento bizzarro, come quello che da Tindari “assale” Salvatore Quasimodo, che trascina le parole e le porta fino alla lontana provincia di Modena e dalle terre di Maranello ritornano in forma di autenticità. Come quella che vede protagonista in “nostro” Luigi “Gigi” Sanfilippo, a questo punto lieve e intrigante è il racconto: “Con un piccolo esercizio di fantasia possiamo collocarlo Gigi nel contesto della Casteltermini degli anni Cinquanta; osservarlo mentre da perfetto dandy del tempo dai capelli impomatati fuma una sigaretta marca serraglio col bocchino…

Pasta di San Calo' ...la ricetta di mia suocera!


Diciamoci la verità, al di là di ogni aspetto fideistico e devozionale, gustare la pasta di San Calo’ non è un sacrificio, anzi… è un piacere, un grande piacere! Se poi lo si fa con devozione ancora meglio. Per non guastare questo momento devoto è meglio allora che la pasta sia buona.
Per questo ho intervistato mia suocera, per farle rivelare la sua ricetta, perché sono sicuro dell’ottimo risultato.

Cominciamo dagli ingredienti…

Gli ingredienti sono semplici: Pasta, Pomodoro fresco, Melanzane, Basilico, Olio, Aglio, Cipolla, Sale, Pepe, Ricotta Salata o Pecorino stagionato.

 

… e il procedimento?

Allora, prima si sbollenta il pomodoro,  si passa al setaccio, poi si soffrigge un po’ d'aglio e la cipolla. A parte si friggono le melanzane, si miscela il tutto con la salsa e si fanno  cuocere assieme. Una volta pronto il condimento si serve assieme alla pasta, con una spolverata di ricotta salata o di pecorino nostrano grattugiato, alla fine guarnite con foglie di basilico.

 

L’ingrediente fondamentale però è la devozione, infatti, se la pasta non è benedetta non viene buona!

Elogio dell’edicolante


Ascoltatemi amici, romani, concittadini…
Io vengo a seppellire Cesare, non a lodarlo.
Il male che l’uomo fa vive oltre di lui.
Il bene sovente, rimane sepolto con le sue ossa…

I ricordi - Ci sono degli oggetti che improvvisamente, come se avviassero un sortilegio, evocano ricordi e instradano memorie fino a quel momento sopite, che improvvisamente  saltano alla mente in una sorta di flashback. Così una tragedia di Shakespeare, acquistata tanti anni prima, ripresa in mano per caso, fa riflettere su quale importanza ricopra, in un piccolo paese,  l’avere la possibilità di acquistare con continuità i giornali, i periodici ma soprattutto i libri. Questo può sembrare un elogio strambo, forse banale, ma un elogio all’edicolante va fatto. Va fatto a quello che per lungo tempo è stato l’unico baluardo contro la marginalizzazione e l’ignoranza per ogni piccola comunità. Niente elogi alla follia, alle rose, all’ozio, al telescopio, niente… solo un piccolo omaggio ad una figura insostituibile in ogni piccolo centro.

Shakespeare - Difficilmente un adolescente negli anni ’80 poteva disporre di tutto il denaro necessario a comprare in un'unica soluzione l’intero teatro di Shakespeare... più i sonetti. In quegli anni i più fortunati potevano acquistare una tragedia alla settimana. Giocoforza si  ordinava solo un libro, (rigorosamente in edizione Einaudi, che faceva chic) e nonostante questo la “paghetta” finiva quasi tutta in libri…
Non erano molti gli edicolanti, anzi ve ne erano due soli, che si interessavano alle letture dei clienti, specie se giovani, e non era raro assistere a scene da teatro come quella che segue:

(Il luogo lo conoscete: l’edicola più vicina)
Edicolante: ma hai intenzione di comprare tutte le opere teatrali di Shakespeare?
Cliente (imbarazzato): tutte le opere teatrali… più i sonetti.
(L’edicolante sorride alla moglie, va nel retrobottega e poi porge al cliente un pacco sul quale campeggia lo Struzzo dell’Einaudi).
Edicolante: sono tutte le tragedie che ti mancano... più i sonetti!
Cliente (ancora più imbarazzato): ma io non ho tutti i soldi per pagare in una sola soluzione…
Edicolante: non ti preoccupare, pagherai un poco alla volta, io mi fido di te, anche se sei un ragazzino, e poi chi m’avi a futtiri unu chi leggi Shakespeare?
(L’edicolante si gira di nuovo a scambiare un sorriso complice con la moglie).
Poco alla volta, una visita al giorno, una chiacchierata e una sigaretta ogni tanto, si finiva per parlare di sogni, di paure, di speranze. Si ascoltavano ricordi di emigrazione, di epiche partite di calcio, di lotte politiche e di arresti, di passeggiate notturne con gli amici. Ci si immergeva con piacere in un microcosmo di cortesia sempre rinnovata.

L’edicola era, fino a poco tempo fa, l’unico luogo dove potevi acquistare le grandi collezioni come “I Grandi della Letteratura” Fabbri Editori. 100 volumi che sono stati il germe di molte passioni per la letteratura. Inevitabilmente con l’edicolante si finiva per parlare degli argomenti più disparati: di politica, di musica e di bande musicali, di strumenti, di tradizioni e di feste. Per gli universitari il sabato mattina era il momento perfetto per un passaggio in edicola. Durante la settimana erano sicuramente fiorite dentro l’edicole tante nuove buone letture, al punto da lasciarsi estasiare in una sorta di paralisi decisionale da eccesso di opzioni. E poi la solita chiacchierata, la solita sigaretta, la solita gentilezza.
E adesso, si va ancora in edicola, anche solo per il piacere di andarci? Certo. Ordinare un libro, aspettare che arrivi, discuterne con l’edicolante, godersi il piacere di una chiacchierata è irrinunciabile.

I vantaggi della tecnologia – Al giorno d’oggi si può ordinare i libri da casa, comodamente. Si può acquistare un bel Kindle Paperwhite, comodissimo dicono, e darsi alla lettura digitale. Ora è possibile “scaricare” i libri nella memoria di uno smartphone e, come sostengono i ragazzi, leggere ovunque si vada senza “l’ingombro” del libro. È vero l’evoluzione tecnologica legata ai libri e alla diffusione della cultura fa un po’ paura, per esorcizzarla ogni tanto sarebbe bene leggere “L’Elogio degli Amanuensi” di Giovanni Tritemio e, leggendo delle nostre stesse paure, magari consolarsi. I libri, qualsiasi forma abbiano, impediscono al mondo di diventare barbaro, salvano le espressioni di eleganza mentale e comportamentale che sono il fragile risultato di millenni di lettura.

Il lato umano - I vantaggi della rivoluzione tecnologica sono innegabili, ma non obbligano a rinunciare al lato umano, alla chiacchierata, all’odore del libro, alla scoperta di nuovi titoli, alla frivola vanità di suggerire qualche libro all’edicolante o a qualche altro cliente. Non si deve rinunciare a tutto questo, non si deve rinunciare ad un mondo fatto di colori e profumi unici, quelli che appunto caratterizzano un’edicola. Senza il passaggio in edicola, senza la bonaria immodestia di suggerire un libro, con la comodità però di un libro comprato su internet, il vivere diventerebbe un grigio tessuto di abitudini, di azioni standardizzate, una cappa sempre più uniforme.
Andare in edicola per molte persone, era, ed è ancora, un rito. In edicola si deve entrare almeno una volta al giorno, si deve dare un’occhiata alle riviste, si deve chiedere se è arrivato il libro prenotato, anche se si è sicuri di essere in anticipo. L’edicola, in un paese piccolo, è tempio, difesa e sostegno.
Quante chiacchierate sono germogliate all’interno di ogni edicola? risate allegre e amare riflessioni, speranze delusioni, di tutto passa in un’edicola. Quanti eventi sono passati dentro un’edicola? Vittorie di mondiali di calcio, elezioni di Papi, le avventure del “papi”, matrimoni vip, record del mondo, festival della canzone… non sembra esagerato dire che l’edicolante, quasi senza muoversi mai, si è visto passare davanti tutta la nostra storia.
Così come i raggi di una candela arrivano lontano, allo stesso modo risplende una buona azione in un mondo malvagio.
(Le illustrazioni sono di Aurora Baglieri, Daniele Tedesco, Francesco Virga)

I Savoia e Zosimo, ovvero nullius in verba (non dar fiducia alle parole di nessuno)




8 luglio 1718 - Leggendo “Storie e Leggende di Sicilia” di Luigi Natoli, ci si imbatte in un avvincente racconto dal titolo: “La grammatica tragica di sua maestà Zosimo”, la narrazione prende le mosse da un fatto realmente accaduto ad Agrigento l’8 luglio del 1718. Natoli purtroppo è stato un autore un po’ trascurato dalla critica, la sua colpa? Avere preferito il romanzo popolare al romanzo storico, nel periodo in cui scrisse godette però di tanta fama e di tanta considerazione e ancora oggi le sue opere si stampano e si vendono senza soluzione di continuità. L’autore siciliano, nato a Palermo nel 1857, scriveva romanzi popolari, a mio sommesso parere, per una scelta ideologica, infatti, come sostiene Umberto Eco nel saggio “I Beati Paoli e l’ideologia del romanzo popolare”, il romanzo popolare ha generalmente uno scopo consolatorio: i cattivi  subiscono sempre la giusta punizione e il bene trionfa senza nessuna eccezione. Il periodo di produzione letteraria di Natoli fu tutto attraversato da guerre, dittature, fame e carestia, questo lo ha spinto a scrivere per il “conforto” delle genti e, forse, anche di se stesso, i suoi lunghissimi feuilleton, dei quali sicuramente “I Beati Paoli” è quello più conosciuto. La  data de “La grammatica tragica di sua maestà Zosimo” non è casuale, infatti in questo giorno, l’8 luglio 1718, a Palermo approdava l’armata di Filippo V° di Borbone. Cominciava così il rapido tramonto del “Regno” dei Savoia nella nostra isola, la casa dei futuri re d’Italia, è bene non dimenticarlo, acquistò il regale titolo proprio in Sicilia. I Savoia fecero ben poco per farsi amare dai siciliani, Natoli così li descrive: […] la poesia popolare di quel tempo non seppe esprimere la desolazione, lo sconforto, la spoliazione che ricorrendo a una similitudine espressiva: <<Pari chi cci passò casa Savoia!>>. Sempre sui Savoia così si esprime l'avvocato Giuseppe Picone nelle sue “Memorie storiche Agrigentine” edito dalla Premiata Stamperia Formica nel 1942, “Il governo savoiardo, che fu talmente aborrito, che in una delle città della nostra diocesi, i monelli scarabocchiavano alle pareti esterne delle case un fantoccio, che appellavano Vittorio Amedeo, e faccan bersaglio alle sassate, e qualche ozioso componeva degli anagrammi, come quello di Victorius Amedeus in Cor eius est avidum”.

Zosimo – Cominciamo da Zosimo e dalla sua storia. Zosimo è il capo dei rivoltosi che, cacciati i militari dei Savoia, presero il potere a Girgenti. Insomma Zosimo è “Il re di Girgenti” narrato da Camilleri per la Sellerio nel 2001. L’incontro tra Camilleri e Zosimo è casuale e ci viene descritto così dal grande scrittore siciliano:
            <<Nel giugno del 1994 nella libreria romana quotidianamente frequentata mi capitò di sfogliare un libretto intitolato Agrigento. E subito lessi queste parole che riporto e che si riferivano a un episodio del 1718 accaduto il quella città, quando si chiamava ancora Girgenti:
Il popolo riuscì a sopraffare la guarnigione sabauda, strumento di un sovrano scomunicato dal pontefice, assunse il controllo di Girgenti e puntò a riorganizzare il potere politico disarmando i nobili, facendo giustizia sommaria di diversi amministratori, funzionari e guardie locali, e addirittura proclamando re il proprio capo, un contadino di nome Zosimo. […]
Restai strammato…>>.
La meraviglia di Camilleri la dice tutta sul fascino del personaggio. Un rivoluzionario agrigentino in grado di prendere il potere e di farsi proclamare “Re di Girgenti”. Camilleri ci informa sul come intorno a Zosimo il mistero rimaneva fitto e anche da Picone nelle sue “Memorie storiche Agrigentine” all’episodio vengono dedicate <<due frettolose mezze paginette>> che descrivono Zosimo come una belva inferocita, quasi un compiaciuto sanguinario. Camilleri a causa di tanta reticenza decide, senza fare altre ricerche, di scrivere una biografia di Zosimo <<tutta inventata>>, ne è venuto fuori il già citato capolavoro “Il re di Girgenti” edito da Sellerio, se volete potete interpretare l’informazione come un invito alla lettura.
Continuiamo con Zosimo, ma passiamo a leggere Natoli e il suo “Storie e Leggende di Sicilia” ristampato da Flaccovio di Palermo nel 2009. “Compare Zosimo, un contadino, dalla faccia scimmiesca, piccolo, nero, magro”. Natoli non è certo più tenero di Picone con il povero Zosimo, lo descrive quasi come se si trattasse dell’anello mancante della scala evolutiva umana. Nel racconto di Natoli Zosimo domina a lungo la scena assumendo, con il dipanarsi della narrazione, una sorta di malefica grandezza, si lascia guidare dall’ispirazione momentanea, o addirittura dalla sua temerarietà, decide velocemente e non sempre per il giusto verso. Riesce a sopraffare le forze Sabaude, riesce a disarmare tutti i nobili, riesce ad impedire che in città arrivino rinforzi sabaudi, ordina una strage con pochi precedenti. La strage però sancisce la sua reale pericolosità e quindi ne determina la fine.

La lettera – Diciannove morti fanno una strage terribile, perché tanta ferocia? Perché la folla, e in questo i le narrazione dei tre autori sono conformi, vuole la testa di Pompeo Grugno? Si dice che a scatenare la violenza dei rivoltosi fu una lettera, che cosa c’era scritto? Chiediamolo ai vari Zosimo che abbiamo incontrato: quello di Camilleri viene a contatto con la lettera dopo uno scontro che suoi uomini hanno avuto con un drappello di Savoiardi, ma perché volevano ammazzare i prigionieri colpevoli, secondo i rivoltosi, di essere filo Sabaudi, ma resi inoffensivi dall’essere prigionieri e disarmati? Cosa c’era scritto in quella lettera e ancora a chi era indirizzata?
<<Ma pirchì vuliti la morti di Grugnu?>> Spiò Fofò La Bella.
<<Pirchì nella tracolla del tinenti che cumannava i cavalleggeri e che è mortu, avemu attruvatu sta littra>>. La cavò dalla sacchetta e la pruì a Zosimo. Non era favusa, i sigilli erano rotti ma autentichi. La littra firmata da Pompeo Grugnu, era indirizzata al Colonnello Sannazzaro, comandante la guarnigioni di Naro e addimannava aiutu assennusi fatta la situazioni a montelusa difficili assà. Grugno finiva dicennosi prigionieru dai montelusani in rivolta.
<<ebbè?>> fece Zosimo.
<<Comu, ebbè?!>> Replicò Tanu. << Me lo spieghi come fa Grugnu dal carzaro ad addimannari aiutu? Veni a diri che ancora ccà ci ha amiciuzzi proni a favurirlu!>>
Zosimo non arrispose, sintiva che c’era qualichi cosa che non quatrava, ma non ebbi tempu né di fari né di diri nenti. Una vintina d’òmini trasirino facenno voci, Zosimo s’arritrovò con una spata in mano, a caminare verso il castello con alimenu tricentu pirsune inferuciute che gli andavano appressu…>>.

Il re di Girgenti nel romanzo di Camilleri sembra coinvolto suo malgrado, travolto dalla velocità degli eventi, spinto dalla ferocia degli altri, schiacciato dalla responsabilità di essere un capo e dalla necessità di non deludere i suoi uomini, condizionato pesantemente dal contenuto della lettera.
Andiamo a vedere cosa ci racconta Picone del suo Zosimo.
<<La plebe si raccozzò, si mosse indi fattosene capo un contadino di nome Zosimo tumultuò contro Pompeo Grugno, che si tenea nemico del popolo, e corse ad aggredirlo in casa chiedendone la testa: però il Capitano Pietro Montaperto sopravvenuto in tempo, calmò le ire di quella ciurma, e salvò il Grugno e suo fratello Nicola. E con essi furono, per ordine di Zosimo, ivi trascinati con molti altri cittadini […] Il dieci del mese, nella chiesa di San Francesco di Assisi fu trovata una lettera, in cui si avvisava il Grugno, che i soldati da lui richiesti erano per movere da Naro per Girgenti. Fu la favilla secondata da un grande incendio. In quella lettera si volle vedere un gran tradimento che Grugno e la eletta cittadinanza ordinavano contro i sediziosi. Zosimo si accende di sdegno, è infrenabile, si arma, trascina seco una moltitudine di suoi compagni […] come belve inferocite, uccidono a fucilate diciannove prigioni, fra’ quali i fratelli Grugno…>>
Questa volta la lettera viene trovata in una chiesa, precisamente in quella di San Francesco di Assisi, chi l’aveva scritta? Chi l’aveva trovata? E ancora chi l’aveva letta? Sono tutte domande alle quali Picone non dà nessuna risposta, sappiamo solo che la lettera costò diciannove morti e in questo i dati di Camilleri e Picone coincidono.
            Vediamo come Natoli ci racconta la cosa. Anche ne “La grammatica tragica di sua maestà Zosimo” è presente una lettera?
…intanto che   discutevano, un plebeo s’accorse di una lettera caduta per terra, chi sa a chi e da quando. La raccolse, la guardò, ma non sapendo leggere la portò a Zosimo.
C’è qualcuno che sa leggere?
Era una domanda sciocca: forse che i plebei imparavano a leggere? Era una cosa necessaria a loro?... non c’erano forse i preti e gli scrivani per leggere all’occorrenza? Un’idea: ricorrere a un prete. S’andò a scovare uno dei preti in servizio in chiesa, perché decifrasse quel misterioso papiro… era diretta allo spettabile Don Pompeo Grugno.[…]
<<Mio signore colendissimo e padrone riveritissimo. Con la presente avverto V.S. che domani mattina, nell’occasione dei disordini che si temono, in obbedienza alli suoi riveriti comandi, una colonna di soldato moverà da Naro, per venire in cotesta>>…
- Come? come?... – interruppe Zosimo, a cui le forme della lingua toscana non erane familiari – la testa, vogliono la testa?...
Vengono a tagliarci la testa… tradimento! Tradimento!...
Al castello!... Al Castello…

Il seguito è ormai facilmente immaginabile, 19 morti!

Il lettore – Abbiamo visto che sulla lettera ci sono tre versioni diverse: quella di Camilleri che dice che fu trovata addosso ad un soldato Sabaudo morto e fu letta da Zosimo; quella di Picone, nella quale la lettera fu trovata nella chiesa di San Francesco di Assisi e non si ha notizia del lettore; infine, in quella di Natoli non si dice dove è stata trovata la lettera ma si indica il lettore in un prete. Mettiamo da parte la versione di Camilleri e combiniamo le altre due (Natoli e Picone), sfruttiamo le uniche due indicazioni chiare: fu trovata in chiesa e fu letta da un prete.
A questo punto comincia a sorgere qualche sospetto: o il “prete” ha scritto, fatto finta di trovare e poi letto la lettera che ha poi dato origine alla strage, oppure, cosa però assai rischiosa, incaricato di leggere la lettera, ha voluto consumare la vendetta contro gli scomunicati filo Sabuadi, distorcendo il contenuto della lettera, della quale a questo punto non sapremo mai il vero contenuto, era meglio non fidarsi del prete. L’intrigante versione di Camilleri però sembra inficiare tutto il ragionamento. Le cose però non stanno propriamente così, infatti, attraverso Zosimo, Camilleri esprime anche lui qualche dubbio: Zosimu non arrispose, sintiva che c’era qualichi cosa che non quatrava… Cosa non “quatrava” al re di Girgenti? Nella mente di Zosimo c’è il dubbio che la lettera possa essere falsa, ma non riesce o non vuole reagire e la strage non viene fermata. Purtroppo, in mancanza di altre fonti, il dubbio ce lo dobbiamo tenere…
L’ultima riflessione vorrei dedicarla al messaggio che Natoli ci vuole dare:
leggete, leggere è importante, l’ignoranza uccide!
È a causa dell’analfabetismo di Zosimo e compagni che la strage si poté consumare, perché una massa di ignoranti si è fidata dell’interpretazione di uno ignorante quanto loro. Se uno dei “rivoluzionari” avesse saputo leggere probabilmente la strage non sarebbe stata consumata.
La grammatica di Zosimo è tragica perché è la causa principale di una immane tragedia e poi perché è la causa della morte di Zosimo stesso. Natoli ci dà una doppia lezione, la prima è indirizzata alla società: l’ignoranza è pericolosa e deteriore per l’ordine sociale, comoda solo alle dittature, anche a quelle tragicomiche; la seconda lezione è più intima e privata, riguarda lo Zosimo che c’è in ognuno di noi: il “re di Girgenti” perde lo scettro e la vita perché non sa leggere, la sua ignoranza provoca un’ecatombe, ai 19 morti di cui abbiamo parlato si devono aggiungere Zosimo stesso e i suoi compagni dopo la sua sconfitta. “Bisogna studiare per non farsi prendere in giro da chi ha studiato”, ci diceva Cesare Pavese.
Volete sapere con quale inganno fu sconfitto Zosimo?
CONSIGLI PER GLI ACQUISTI:

Il re di Girgenti, romanzo storico di Andrea Camilleri, pubblicato dall'editore Sellerio nel 2001.

Storie e leggende di Sicilia,  leggende, aneddoti, cronache… di Luigi Natoli, ripubblicato dall’editore Flaccovio nel 2009.
Si possono prenotare comodamente nelle nostre edicole. Facimmu campari i paisani!
Bibliografia:
Andrea Camilleri, Il re di Girgenti, Sellerio, Palermo, 2001
Luigi Natoli, Storie e leggende di Sicilia, Flaccovio, Palermo, 2009
Giuseppe Picone, Memorie storiche agrigentine, Premiata Stamperia Formica, Agrigento, 1942
Francesco Lo Bue, Uomini e fatti di Casteltermini, Publisher F.L.B, Palermo, 1985
Umberto Eco, “I Beati Paoli e l’ideologia del romanzo popolare”, introduzione a “I Beati Paoli” di Luigi Natoli, Faccovio, Palermo, 2010

Il Ministro Giannini, la "legge gender"... e l'onestà intellettuale


Negli ultimi tempi, in giro per i nostri paesini, magari in occasione di feste popolari, sono stati posizionati dei banchetti, più o meno regolari, che raccolgono le firme per un eventuale referendum su una famigerata “legge gender” della scuola italiana. Banchetti più o meno regolari perché non sempre e per tutto il tempo hanno visto la presenza di un autenticatore/trice che convalidava singolarmente, una ad una, le firme. Infatti, non si possono raccogliere le firme se non alla presenza di un autenticatore, quindi in assenza di questo la raccolta andrebbe onestamente e momentaneamente sospesa, per evitare di commettere una irregolarità che se documentata porterebbe a gravi conseguenze.
Un’altra irregolarità riscontrata sta nella poca onestà intellettuale di chi, senza aver letto mai l’art. 1 comma 16 della legge 107/2015, ha amplificato interpretazioni false e pretestuose, contravvenendo in nome della sua chiesa, è paradossale, all’ottavo comandamento. Questo è accaduto su internet, nei social network ma anche, ahimè, negli improvvisati banchetti, dove al posto di dire <<raccogliamo le firme per l’abrogazione  della legge 107/15 – la cosiddetta Buona Scuola>>. Dicevano di raccogliere le firme contro la “legge gender della scuola” contravvenendo alla legge di Dio, sempre ottavo comandamento, e alla legge degli uomini.

Tutto questo prolificare di bugie e malafede, quest’ultima nel senso più letterale del termine, ha portato il ministro Giannini a reagire. Si legge su “La Repubblica” del 16 settembre, in un articolo dal titolo “Teoria gender, l'ira della Giannini: "Basta con questa truffa culturale, pronti a denunciare”
  “Chi ha parlato e continua a parlare di 'teoria gender' in relazione al progetto educativo del governo Renzi sulla scuola compie una truffa culturale e voglio dire con chiarezza che ci tuteleremo con gli strumenti adeguati", ha detto il ministro dell'Istruzione, Stefania Giannini, a Radio24. Alla domanda successiva del conduttore, Gianluca Nicoletti, se il ministero si sta muovendo in questa direzione, la titolare del dicastero di viale Trastevere ha poi risposto: "Eh beh, sì, perché facciamo chiarezza con circolari e in altri modi, ma se ciò non dovesse bastare credo che ci sia una responsabilità irrinunciabile di passare anche a strumenti legali". Ha poi aggiunto: "Mi auguro ci sia un ravvedimento immediato" in quella parte della Chiesa cattolica che ritiene essere presente nella Buona Scuola la teoria del gender, ricordando che anche il vescovo di Padova ha fatto una circolare proprio criticando quella corrente cattolica che ritiene legato il gender alla Buona Scuola”.

“Passare anche a strumenti legali”, ovvero denunciare,  questo è quello che il Ministro Giannini individua come extrema ratio contro quella che definisce una truffa culturale, nel frattempo ha pubblicato  una circolare (N° 1972 del 15 09 2015) chiarificatrice.
Circolare MIUR
In attesa di ulteriori risvolti cerchiamo di formulare un’ipotesi, magari fantasiosa, su cosa non piace veramente alla chiesa cattolica della “Buona Scuola” di Renzi. Il sospetto che a preoccupare la chiesa italiana non siano fantasmagorici e fantasiosi insegnamenti che vanno ad infrangere le regole della morale, ma il fatto che dopo questa legge spariranno le graduatorie a esaurimento. La conseguenza di questa azione non è di poco conto, tutte quelle scuole “paritarie”, quasi 14 mila due terzi delle quali cattoliche, che hanno la cattiva abitudine di sfruttare giovani docenti dando loro in cambio non uno stipendio adeguato ma solo i famosi 12 punti per sopravvivere nelle graduatorie, si troverebbero costrette a dover pagare i docenti, con un mancato guadagno notevole. Allora il motivo potrebbe essere “il turpe denaro”, come spesso capita. Certo sull'onestà intellettuale di alcuni prelati, non di tutti sia chiaro, un esempio positivo è il Vescovo di Padova, qualche dubbio viene, sul fatto che non abbiano letto un rigo della riforma pure.
Nota dell' Ufficio Diocesano Pastorale della scuola della Chiesa di Padova

Molti insegnanti contestano la 107/15, per vari motivi: potenziamento del ruolo del dirigente scolastico, taglio di risorse per la scuola pubblica, criteri di assunzione dei precari, sistema di valutazione, taglio al personale ATA, destino dei docenti abilitati con i PAS e altre cose.
Per molti insegnanti sarebbe stato comodo cavalcare l'onda di questa falsa protesta e appoggiarsi su questa raccolta firme, tentando una via per abrogare la Buona Scuola, ma avrebbero dovuto abdicare alla loro onestà intellettuale, avrebbero dovuto abbassarsi a raccontare fandonie per i loro interessi… non lo hanno fatto, queste cose le facciano altri…